L'intervista/ Enrico Giovannini: «Muoversi in città, il cambiamento adesso è possibile»

L'intervista/ Enrico Giovannini: «Muoversi in città, il cambiamento adesso è possibile»
di Luca Cifoni
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Mercoledì 14 Ottobre 2020, 15:12 - Ultimo aggiornamento: 15 Ottobre, 07:30

«La pandemia ci ha insegnato che cambiare è possibile, anzi necessario. In momenti come questo il mondo si aggiusta rapidamente e una mobilità diversa diventa un obiettivo a portata di mano». Enrico Giovannini, portavoce dell’ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), docente di statistica, già presidente dell’Istat e ministro del Lavoro, è abituato a guardare avanti. E ora vede le opportunità che anche una fase difficile può creare.

Le città hanno cambiato faccia, ma è stato un cambiamento forzato oltre che doloroso. Come si collega quello che sta succedendo con l’esigenza di sostenibilità di cui lei si occupa da anni?

«Bastava girare un anno fa per le capitali europee per rendersi conto della presenza di biciclette a pedalata assistita e monopattini. Non era insensato immaginare che questi mezzi di trasporto si sarebbero diffusi anche nel nostro Paese, pur tenendo conto del ritardo con cui da noi si seguono certe tendenze che a prima vista possono sembrare mode. L’epidemia di Covid 19 però ha provocato un’accelerazione. Da una parte c’è la comprensibile preoccupazione per l’uso dei mezzi pubblici, dall’altro un aumentato risparmio delle famiglie nei mesi del lockdown: siccome si tratta di spese tutto sommato accessibili, incoraggiate dal sostegno deciso dalla politica sotto forma di bonus bici, per molti è stato abbastanza naturale fare questo passaggio. Per di più con il ricorso allo smart working la distanza da percorrere quotidianamente si è ridotta per un’ampia platea di lavoratori. Questo fattore dovrebbe incidere anche in una fase successiva, quando ci si riorganizzerà con spazi di coworking sparsi per la città, e quindi meno persone concentrate in un solo posto e percorrenze più brevi».

Ma è uno scenario credibile anche per il dopo, quando ci arriveremo? Per la nuova normalità?

«Ci sono alcuni fenomeni da osservare con attenzione. Negli ultimi tempi abbiamo tutti passato più tempo nella zona della città in cui dormiamo. E questo ha avuto degli effetti, ad esempio valorizzare i ristoranti locali, di quartiere, che durante la fase di clausura rigida avevano saputo conquistarsi i clienti con l’asporto. Stiamo assistendo ad una ricomposizione del tessuto urbano verso quella struttura policentrica auspicata in passato da molti architetti. Allo stesso tempo si è ridotta la mobilità e prevedibilmente, quando in futuro si passerà ad una forma di smart working parziale, alcuni cambiamenti diventeranno permanenti. Una quota di persone sceglierà di restare nelle zone periferiche per alcuni giorni della settimana, ci sarà un riequilibrio tra periferia e centro. Allora può essere questo il momento di progettare uno sviluppo diverso.

Regolare il traffico in funzione delle infrastrutture disponibili. Se si attenuano i picchi di traffico si possono avere servizi migliori tutti i giorni».

Chi dovrebbe fare questa progettazione? Sembra difficile imporre novità così significative.

«Nessuna imposizione, si tratta semmai di concertare. Un ruolo importante nel definire i tempi di lavoro durante tutta la settimana possono averlo i Comuni: in quelli sopra i cinquantamila abitanti ora è previsto che le aziende con più di 100 addetti si dotino di un mobility manager, che può dialogare con le istituzioni. Per inciso l’abbassamento della soglia da 300 a 100 addetti era una delle proposte fatte dalla commissione Colao e accolte dal governo».

E i centri storici che fine faranno? Tra crisi del turismo e minore presenza di lavoratori hanno subito un colpo durissimo.

«Alcuni centri storici erano stressati nella situazione precedente. È chiaro che una parte delle realtà che c’erano non potranno riaprire, ma si può innescare un processo di “distruzione creatrice”, come la chiamerebbe Schumpeter, con nuove aperture in altre parti delle città che diano magari spazio a una nuova generazione di ristoratori, di artigiani. Dobbiamo decidere se difendere sempre quello che non ha futuro oppure guardare avanti. Vanno bene i sostegni economici a chi ha perso l’attività, ma bisogna anche pensare a incentivare chi ne vuole avviare una diversa. Tutto questo richiede però di mettere al centro concetti diversi, la qualità della vita, il benessere equo e sostenibile. Due anni fa l’ASviS ha sviluppato un’Agenda urbana per lo sviluppo sostenibile, con una serie di obiettivi che oggi - dopo la crisi del coronavirus - sono ancora più validi. Perché ora proprio a causa della pandemia è scattato un click nella testa di molte persone».

Sarebbe a dire?

«In molti si è radicata l’idea di un nesso causale tra pandemia e inquinamento, ipotesi peraltro coerente con le correlazioni statistiche esistenti tra questi fenomeni. Quindi c’è più disponibilità a cambiare le proprie abitudini, ad esempio a passare ad una bici a pedalata assistita se i tragitti da fare si sono accorciati». Quando si parla di mobilità del futuro è naturale pensare all’elettrico. Ci si pensava anche prima, ma sembrava che la transizione dovesse essere lenta... «Il boom di offerte di auto elettriche e ibride è la conferma della pigrizia che ha caratterizzato molti produttori negli ultimi dieci anni. Una pigrizia che ora va rapidamente superata perché la tecnologia fa passi da gigante e chi resta indietro sarà perduto. E non parlo solo delle auto private. Pensiamo agli autobus: a fabbricarli oggi sono soprattutto i cinesi. Oppure ai furgoncini con i quali si fanno le consegne a domicilio, che diventano sempre più importanti. Le imprese che producono solo auto a combustione interna si renderanno conto che rischiano di essere messe fuori gioco. Ma la politica deve fare la sua parte: anche fissando un termine dopo il quale questi motori saranno vietati nelle città, come già accade in alcuni Paesi europei».

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