L'equivoco dell'autonomia, il regionalismo da rivedere e l'allergia alle riforme

L'equivoco dell'autonomia, il regionalismo da rivedere e l'allergia alle riforme
di Francesco G. GIOFFREDI
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Venerdì 3 Febbraio 2023, 13:02 - Ultimo aggiornamento: 13:04

Brutta e strana “bestia”, in Italia, le riforme istituzionali. Invocate a pieni polmoni, quando non ce n’è traccia. Mortificate e affossate, se invece s’affaccia il minimo tentativo o proposta di legge. Essere genuini riformisti stanca. Soprattutto quando si toccano i fili dell’alta tensione: l’equilibrio tra poteri, il bilanciamento dei livelli di governo, le rendite di posizione. E però c’è un grossolano, e un po’ goffo, equivoco nel dibattito sull’autonomia differenziata delle Regioni: non è una riforma strutturale del regionalismo, ma dai sostenitori del Nord viene spacciata come tale. O meglio (anzi: peggio): per tranquillizzare il Sud in allarmata e giustificata fibrillazione, governatori e parlamentari settentrionali (e non solo) spiegano che l’autonomia differenziata è «un’opportunità e una sfida per tutti, anche per il Mezzogiorno», insomma sarebbe l’occasione per riformare, responsabilizzare, accelerare, razionalizzare.
 

Tutte esigenze opportune e pressanti, che affondano le proprie radici in deficit strutturali del sistema istituzionale, ma che richiedono altre soluzioni, ben più organiche e condivise. Il regionalismo va rimodulato? Sì.

Con l’autonomia differenziata? No. Come spesso accade, a domande sacrosante vengono date perciò risposte errate o comunque fuori traccia. Il solito problema, peraltro accentuato da marchiani errori politici, vecchi e nuovi, da destra a sinistra.


Prima di tutto però è doveroso liberare il campo da facili fraintendimenti e da diffusi pregiudizi, tre su tutti. Il primo: il regionalismo all’italiana presenta zone d’ombra e falle, molte delle quali messe a nudo proprio dagli anni della pandemia. In sostanza, l’autonomia differenziata di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna non va certo a intaccare un’architettura che brilla per efficienza ed equità. Anzi. È allora necessaria una riflessione approfondita sulla frammentazione innescata dal regionalismo, sui margini di indipendenza già concessi ai governatori-viceré (di Nord e Sud), sulla distribuzione delle materie e delle risorse tra centro e periferia e sul riassetto istituzionale, che forse troppo frettolosamente ha marginalizzato i Comuni e svuotato le Province senza adeguate compensazioni. Secondo punto: l’applicazione parziale, o pressoché nulla, degli articoli della Costituzione che garantiscono la piena perequazione territoriale di risorse e servizi (il 119, su tutti), e questo dovrebbe essere un presupposto cardine, la base, prima di poter smuovere anche solo un mattone della costruzione istituzionale. Terzo: il Mezzogiorno, a più livelli, si straccia le vesti, batte i piedi e grida allo scippo che verrebbe perpetrato con l’autonomia differenziata del Nord, e va bene così, dopodiché sarebbe il caso di aprire un confronto ampio e serrato sulle responsabilità pluridecennali delle classi dirigenti meridionali. Che possono e devono ribaltare il proprio paradigma, ma la chiave del ribaltamento non è certo nell’autonomia differenziata.


Di sicuro, tornando sul tracciato di queste ore, se l’autonomia è «un’opportunità», lo è per il Nord. Molto meno per il Sud, almeno a queste condizioni. Non può essere perciò agitata la teoria del trickle-down, o dello sgocciolamento, secondo cui se crescono e volano le “regioni-locomotiva” del Paese, allora ne beneficiano tutti. Né tantomeno può pesare – in qualche modo parafrasando Ronald Reagan – “l’affamare la belva”, cioè pungolare il Mezzogiorno al punto da costringerlo obtorto collo a cambiare passo. Non ora e non così. Argomenti e controdeduzioni note, e supportati da numeri e studi. Il punto qui è però un altro, ed è – come accennavamo – politico, di “struttura” del dibattito. E di allergia complessiva a un vero e sano riformismo.


Innanzitutto nel centrodestra, in evidente imbarazzo: nel rimpiattino tra FdI, Lega e Forza Italia le riforme sono merce di scambio e pedine di una partita a Risiko appena agli inizi e dagli esiti imprevedibili. L’autonomia differenziata è battaglia vitale come l’ossigeno per la Lega, divorata dall’urgenza di recuperare terreno elettorale nel blocco geografico embrionale (il Nord). Molto più tiepido – per usare un eufemismo – l’approccio di Fratelli d’Italia, che dà sempre l’idea di traccheggiare sulla difensiva o tra i silenzi, aggrappandosi con le unghie alla definizione preventiva dei Lep (i livelli essenziali delle prestazioni, ma è proprio questo uno dei punti più deboli e dissonanti del ddl Calderoli), e che viceversa sponsorizza sull’altro piatto della bilancia il presidenzialismo o il premierato. A ciascuno la sua priorità. Insomma, nel centrodestra latita l’idea anche solo germinale di una riforma globale dell’assetto istituzionale, che è fatto di pesi, contrappesi e vasi comunicanti.

Non da meno è il centrosinistra, o i vari pezzi di una coalizione virtuale, tutti afflitti peraltro da deficit mnemonico: la riforma del titolo V della Costituzione che “arma” l’autonomia differenziata (prevista dal modificato articolo 116) è del 2001 e venne congegnata dai governi di centrosinistra, inseguendo la Lega. Una riforma imperfetta, applicata senza costrutto e criterio, e che ha prodotto effetti imprevisti dai suoi stessi estensori. Tra l’altro, anche nel Pd convivono con fatica almeno due anime: i dem del Sud, fieri oppositori dell’autonomia differenziata; e gli esponenti del Nord, che su questo terreno si muovono con palpabile difficoltà tra mille distinguo, parziali abiure e amplissimi giri di parole (se state pensando, per esempio, a Stefano Bonaccini, ecco, non sbagliate). Non solo: giova ricordare che anche al Sud, nel precedente round sull’autonomia differenziata, alcuni governatori di centrosinistra avevano accarezzato l’idea. Michele Emiliano, che oggi fa le barricate, aveva messo un piede nell’acqua e mosso i primi informali passi per l’autonomia, strategicamente attirato dalla possibilità di guadagnare spazi prima di tutto in materia energetica.


Ma nel viaggio tra i ricordi rimossi dal centrosinistra è giusto ripescare infine un altro pezzo di storia: la riforma costituzionale di Matteo Renzi, bocciata nel 2016 al referendum. La proposta dell’allora premier “imbrigliava” parecchio l’autonomia differenziata riducendone il ventaglio di materie (esempio: l’energia rimaneva a gestione centralizzata), e rendendola possibile solo in una “condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio regionale”; sopprimeva le materie a legislazione concorrente tra Stato e Regioni (fonte di equivoci e contenziosi); introduceva la clausola di supremazia (l’intervento del Governo in qualsiasi ambito qualora lo avesse richiesto “la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”). In definitiva: un tentativo di rendere coerente il regionalismo sotto lo scudo di un potere centrale, senza la moltiplicazione di repubbliche autonome che viaggiano in ordine sparso affidate ai viceré di Nord e Sud. Tutte argomentazioni oggi spesso rispolverate nel centrosinistra, tuttavia accuratamente dimenticando (o fingendo di farlo) la riforma renziana, che oltre alle ombre contestate aveva anche molti punti di luce. Ma essere riformisti, si sa, stanca e logora. E fare le riforme, quelle vere, ancora di più.

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