Il linguaggio corrotto e la lotta alla corruzione

Il linguaggio corrotto e la lotta alla corruzione
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 17 Giugno 2018, 19:58 - Ultimo aggiornamento: 20:01
Sarebbe troppo semplice travestirsi oggi da bastonatori digitali e ironizzare, dopo le clamorose intercettazioni emerse dall’inchiesta sullo “stadio marcio” progettato a Roma, su quanti hanno predicato onestà e purezza come principali discriminanti della buona politica, anche più della competenza, del sapere e della conoscenza. Sarebbe fin troppo banale ripescare dal passato uno dei tanti post o video in rete dei moralisti a cento carati, scritto o girato dopo qualche avviso di garanzia, dopo un semplice sospetto o il venticello della calunnia, dopo l’apertura di un’inchiesta o la diffusione di una (autogenerata) fake news, e leggere o ascoltare le accuse con quel linguaggio violento, fatto di insulti e minacce, con il quale venivano additati tutti gli altri come corrotti, mafiosi, servi dei poteri forti e della massoneria, tangentisti e tangentari, speculatori, ladri e scippatori di risorse del popolo, mercanti nel tempio e... fermiamoci qui.

Sarebbe troppo semplice, di fronte allo “stadio marcio” che sta emergendo a Roma, dimostrare che l’antipolitica, una volta fattasi governo, reca in sé gli stessi metodi e le stesse furberie della tanto deprecata vecchia politica. E sarebbe divertente ricordarlo soprattutto a tutti quelli che si presentavamo come puri, onesti, portatori di una nuova moralità (pubblica e privata), trasparenti portavoce dei cittadini, anzi avvocati del popolo, spazzini delle istituzioni malsane, pulitori del Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno.  Purtroppo, la faccenda è maledettamente seria e chi ha a cuore le sorti della nostra democrazia non può inseguire né la “politica del rinfaccio” né la “retorica del rimpianto”, anche perché entrambe sterili e fuorvianti. Con il “rinfaccio” si scade inevitabilmente nello stesso linguaggio e nello stesso brodo di coltura di quel moralistico circo dell’onestà che tanti guasti ha fin qui prodotto, finendo per calpestare nella foga anche quelle garanzie costituzionali e quel diritto alla presunzione di innocenza che devono valere oggi per l’inchiesta romana come dovevano valere in passato e dovranno valere nel futuro. Con la “retorica del rimpianto”, invece, si rischia di non leggere la fase nuova e, soprattutto, si rischia di tenere la testa perennemente girata all’indietro, coltivando la sola illusione che, prima o poi, di fronte al cortocircuito tra le “cose promesse” e le “cose realizzate” si venga a creare tra gli elettori un ravvedimento su risultati e capacità di governi e governanti del passato. Non è così, visto l’accumulo di rancore, rabbia e odio che si è venuto sedimentando in questi anni. E i perdenti delle elezioni del 4 marzo, a cominciare dal Pd, farebbero bene comprenderlo (senza dimenticare, tra l’altro, che nell’inchiesta di Roma ci sono dentro tutti, anche Pd e Forza Italia, oltre che M5S e Lega).

Piuttosto, la questione da porsi e su cui seriamente riflettere è quali saranno gli effetti sulla tenuta del sistema se l’antipolitica mostra essa stessa le pecche della vecchia politica, proprio sul fronte della pubblica moralità che più di ogni altro è stato il cavallo di battaglia delle cosiddette forze del cambiamento. Il punto sta proprio qui: sta nel capire quanti danni ha creato e quanti pozzi democratici ha avvelenato negli anni la fasulla esasperazione del moralismo come chiave interpretativa della realtà e della politica, il falso mito della propria purezza e onestà, anzi della superiorità morale rispetto a tutti gli altri, il credere e far credere in una missione salvifica totale, e soprattutto ultimativa, fondata sulla propria diversità. Sta nel capire che cosa può avvenire dopo che tutti riapriranno gli occhi e si accorgeranno quanto illusoria e velleitaria sia l’idea che la corruzione e la cattiva politica possano essere superate con la pura e semplice sostituzione delle persone, con i buoni al posto dei cattivi, gli onesti al posto dei disonesti, i puri al posto degli impuri, a sistema e meccanismi di potere invariati.

È vero, anche in passato abbiamo avuto movimenti politici e leadership che si sono posizionati lungo questo crinale e lo hanno pericolosamente percorso, uscendone con le ossa rotte, ma senza conseguenze pesanti sulla tenuta del sistema e della democrazia. Come dimenticare l’ostentata esaltazione della diversità antropologica e della superiorità morale dei comunisti che, alla prova dei fatti, si rivelarono poi completamente fallaci? E come dimenticare la Lega di Bossi che al grido di “Roma ladrona” e al mito della superiorità morale della “razza padana” riuscì a mietere successi elettorali per poi cadere rovinosamente in storie di diamanti e finanziamenti sottratti (o dirottati al figlio del leader), arricchimenti personali e compravendite di lauree? O i movimenti “togati” di Di Pietro e di Ingroia con la loro triste parabola, anche personale, finita nella polvere di inchieste e sospetti di appropriazioni indebite? Partiti e uomini che si presentavano “purissimi” e “onestissimi”, caduti nella polvere della corruzione e del malaffare una volta contaminatisi con il potere. Tutti con due tratti distintivi: nella fase ascendente, l’esaltazione del fondamentalismo, inteso qui come rottura di ogni rapporto tra reale e ideale; nella fase discendente, vittime dello stesso fondamentalismo dopo la contaminazione con il potere e la inevitabile ricerca del compromesso tra reale e ideale. Ma si trattava sempre e comunque di forze non centrali, di partiti secondari, di sentimenti non maggioritari.

Oggi è diverso. Oggi siamo di fronte a un sentimento profondo e diffuso, largamente maggioritario, che nella furia della rottura e del cambiamento ha portato a uno svuotamento del significato stesso della politica in nome della moralizzazione della classe dirigente e sta spingendo in posti di responsabilità un personale - politico e tecnico - non sempre all’altezza della situazione. L’inchiesta romana, e non solo quella, dimostra che la volontà di ripristinare il primato della politica sugli altri poteri è difficilmente raggiungibile con una politica fortemente indebolita da anni di demonizzazione e delegittimazione nelle piazze reali e virtuali, oltre che dal “populismo dell’onestà” raccontato in rete e nei talk show televisivi. E non basta la sostituzione dei presunti “buoni” con i presunti “cattivi” a colmare quel vuoto, soprattutto se la competenza, la conoscenza, l’esperienza e la professionalità non sono più considerati valori, ma disvalori. Esiste un rapporto direttamente proporzionale, non solo temporale, tra la profonda crisi della democrazia partecipata, oltre che di una politica vissuta, e il dilagare della corruzione come fenomeno di massa. Ecco perché dopo la sbornia del “populismo dell’onestà” è quanto mai concreto il rischio di un ulteriore distacco tra paese reale e paese legale, con un allargamento del già pericoloso vuoto tra cittadini e istituzioni, e con una conseguente torsione che sale dal basso verso forme di semplificazione del sistema e delle procedure democratiche. Contro questo rischio non serve né la “politica del rinfaccio” né la “retorica del rimpianto”. Serve un altro linguaggio e un altro racconto, di rottura rispetto al recente passato. E di prospettiva, anche lunga. Se è vero, come si dice, che le democrazie liberali sono entrate in crisi con le parole prima ancora che con le azioni, la chiave di volta sta lì: nelle parole e nel linguaggio. Ce lo ha insegnato Tucidide: la corruzione del linguaggio è il primo passo della corruzione degli uomini. “Quando il linguaggio è corrotto non v’è più modo di comunicare tra i cittadini, non ci sono più persone, solo nemici. E chi inveisce infuriato riscuote più successo”. Ripensando a questi anni, ci rendiamo conto quanto siano importanti le parole e il linguaggio. Anche contro la corruzione.





 
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