Dal cibo deve ripartire la ri-educazione ambientale e sociale

di Raffaella SCORRANO
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Venerdì 14 Dicembre 2018, 16:52
Il verbo nutrire è poliedrico, fluttua dal sostentare per crescere, in senso pratico, al significato metaforico del coltivare, alimentando, le virtù necessarie ad apprendere l'arte del vivere. Questa dimensione eclettica del termine rende l'effetto di enorme importanza e responsabilità soprattutto in vista della costruzione progressiva dell'individuo nel suo farsi adulto, sia nella fase di evoluzione e crescita biologica, sia in quella del riconoscimento di se stessi con gli altri. Il nutrirsi bada alla necessità di assumere cibo, dunque di alimentarsi. L'assunzione del sostentamento converge nei dettami valoriali di cui l'uomo si nutre, per l'appunto, per crescere ed attiene, dunque, all'educazione.

Da tempo, ormai, il cibo, nel proprio essere nutrimento, ha assunto connotazioni etiche nella sua più ampia argomentazione: cibo e sprechi, nutrizione e salute, produzione ecosostenibile, alimentazione consapevole, sviluppo agroalimentare, tutela dell'ambiente per un maggiore rispetto etnografico anche delle tradizioni gastronomiche. L'educazione al cibo è diventata il presupposto per non retrocedere nei meandri di un pressapochismo alimentare, dovuto al troppo repentino avanzare del culto del profitto.  La questione che sottende il tema è sempre la solita: uno sfruttamento esagerato ed inadeguato del pianeta Terra a svantaggio dell’equilibrio eco-ambientale, nonché sociale.

Ci si è resi conto che mangiare non è più soltanto nutrirsi, ma assume anche inevitabilmente una dimensione sociale e politica in cui l’uomo esprime se stesso ed i propri valori. La rivoluzione da mettere in atto rispetto ad una rinnovata esigenza di cibo, e che non sia solo fisiologica ma anche progressivamente risalente verso una maggiore autorealizzazione del sé individuale e collettivo, abbisogna di conoscenza, di educazione e di cultura. È una sorta di graduale presa di coscienza che parte dalla condizione primordiale in cui si mangia perché si ha fame, per risalire pian piano su stadi superiori di attenzione, quali la conoscenza dei prodotti, per cui mangiare non debba ridursi ad una sorta di vizio capitale ma sia, piuttosto, una scelta consapevole di vita. Nella qual cosa si introduce, a ben vedere, un più oculato discernimento tra ciò che viene globalmente proposto come food fast (anche in una logica fin troppo estremizzata di vivere la dimensione temporale in spazi sempre più condivisi ma spesso affatto osservanti il senso del gusto) e ciò che, invece, si rappresenta come un tutt’uno col territorio di appartenenza, affinché la convivialità e la condivisione (significanti un che di sopraffino intento di trasmettere valori in maniera educativa e culturale) possano trarre le fila dell’importanza del cibarsi alla stregua di un viaggio esperenziale alla scoperta dei luoghi. È da qui che ri-comincia la ri-educazione socio-ambientale sulla scorta di elementi che oltrepassino il mero bisogno fisiologico di mangiare per sopravvivere e vadano ad individuare le logiche che pervadono l’intero sistema food. Si badi bene, il cosiddetto foodismo ha, oltretutto, rimandato la ritualità dello stare a tavola alla routine del consumo veloce di una qualsiasi pietanza pur di sfamare lo stomaco svilendo anche il significato del pranzo inteso come fermarsi per riprendere se stessi incontrandosi.

Occorre intraprendere un nuovo modo di intendere le attività legate al cibo, perché esse sono tutte interconnesse. Comprare il pane già confezionato nei sacchetti al supermercato non fa conoscere il lungo viaggio del seme dal campo alla tavola. Di questo si tratta: di ri-scoprire lo stupore per il fragile e tenace miracolo della vita nella sua più aulica accezione, che è quella del nutrire. Sarebbe auspicabile, dunque, favorire l’aspetto ambientale della partecipazione alla produzione del cibo, in quanto conoscendo si può scegliere, e scegliendo si può condividere uno stile diverso di fare eco-sistema.

In tutto ciò, il mondo contemporaneo ha raggiunto il paradosso più interessante: opulenza uguale malesseri dovuti a consumo improprio di cibo. E, in maniera molto realistica, purtroppo, si permea, in tutta la sua contraddizione, anche il risvolto inquietante del notevole fabbisogno del sistema alimentare di risorse ed energie. Succede, infatti, che, ad esempio, la coltura dei cereali sia destinata per il 47% circa all’alimentazione umana, mentre il 40% venga utilizzata per fabbricare biocarburanti e per nutrire il bestiame. Ciò, a fronte di 1,3 miliardi di tonnellate di cibo sprecate ogni anno nel mondo, equivalenti a quattro volte il fabbisogno di derrate per nutrire i circa novecento milioni di persone che soffrono la fame. E ciò nonostante, la percentuale di patologie causate dalla obesità (la stima mondiale di persone affette da esagerato sovrappeso va oltre i due miliardi di individui) è di gran lunga superiore a quella conseguente la malnutrizione (pari a quasi novecento milioni di soggetti).

Una serie di studi condotti da specialisti, ed ampiamente resi noti ogni anno in occasione dell’ “International Forum on Food and Nutrition”, ha evidenziato squilibri notevoli tra la cosiddetta Piramide Alimentare e quella Ambientale. In sostanza, gli alimenti per i quali è consigliato un consumo più frequente (ortaggi e frutta, per intenderci) hanno un impatto ecologico inferiore, contenendo i livelli di anidride carbonica e risparmiando significative quantità di acqua (altro elemento a serio rischio).

Prima di andare a piantare orti su Marte (HortExtreme, esperimento nel deserto in previsione di un’ipotetica missione interplanetaria ), sarebbe il caso di capire che, se è vero che il settore agricolo consuma il 70% dell’acqua dolce e produce il 24% dei gas a effetto serra (di contro al danneggiamento perpetrato dal settore industriale per il 21% e quello dei trasporti per il 14%), allora, probabilmente, è giunta l’ora che anche il cibo recuperi la sobrietà della propria narrazione, magari avvalendosi di una alfabetizzazione generale affinché esso racconti di sé e della sua arte.

 
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