La crisi a Lecce e i tre danni per la città

di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 2 Dicembre 2018, 19:28 - Ultimo aggiornamento: 4 Dicembre, 14:16
Affidare le sorti del governo della città nelle mani di alcuni transfughi eletti nelle liste del centrodestra, novelli statisti salentini, è stato un gravissimo errore. Per Lecce. Per il centrosinistra. Per l’immagine del sindaco Salvemini. Ancora non sappiamo quale sarà l’esito dell’ultima crisi, conclamata in aula, nei rapporti tra le forze di quella che è stata finora la maggioranza. Difficile, anche se non è da escludere che, per la seconda volta a distanza di pochi mesi, l’annuncio di verifiche e l’ipotesi di dimissioni rientrino di fronte a qualche dichiarazione d’intenti e ad accordicchi rabberciati. Vedremo. Di sicuro, è ormai chiaro che la storia è finita. Anzi, forse non è mai cominciata. Ed era tutto previsto e prevedibile, tant’è che fu detto e scritto - anche su queste colonne - subito dopo la sentenza del Consiglio di Stato che certificò la maggioranza consiliare al centrodestra. In assenza di un accordo vero e trasparente tra i due schieramenti (e non con i singoli consiglieri), base di una grande coalizione anche nella formazione della giunta, la via maestra sarebbe stata, allora, il ritorno alle urne per far sciogliere agli elettori il nodo che loro stessi avevano creato nelle rune (sindaco di centrosinistra e maggioranza consiliare di centrodestra). Sarebbe stato saggio e lungimirante anche per il centrosinistra offrire, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, le firme necessarie per lo scioglimento immediato del Consiglio, smascherando la sceneggiata del centrodestra e giocandosi la partita nelle urne in primavera con ottime possibilità (allora) di vittoria.
Fu scelta, invece, l’opzione “minimalista” con il tentativo riuscito di strappare qualche consigliere alla maggioranza di centrodestra, in nome di un non meglio compreso “patto di governo”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Quel “patto” ha prodotto una navigazione a vista e una guerra di logoramento che in pochi mesi ha disconnesso la città con chi oggi la governa. Se questa disconnessione avesse ricadute soltanto sui destini personali di questo o quell'amministratore, sarebbe inutile qui anche parlarne. Il problema è che i danni di quella scelta sbagliata risulteranno nel medio e lungo periodo anche molto più gravi di quelli che oggi appena si intravedono. Ne elenchiamo tre.
Il primo, ogni giorno sempre più evidente, è che a navigare a vista è soprattutto la città. In presenza di forti trasformazioni sociali ed economiche, accompagnate da sollecitazioni al cambiamento dai ceti emergenti, Lecce avrebbe invece bisogno di una guida con una visione larga, dall’orizzonte ampio, anziché essere frenata e paralizzata dalle quotidiane trattative con i transfughi, dagli altolà e dalle interdizioni di un Finamore qualsiasi, oltre che dalle manovre e dai fili che dietro le quinte muove qualche burattinaio. Non solo Lupiae, assestamento di bilancio, messa in sicurezza dei conti con un piano di rientro pluriennale. Ma anche progetto urbanistico, politiche incisive (e soprattutto coraggiose) per il centro storico, riqualificazione concreta e visibili (non solo a parole) delle marine. L’attesa svolta non è stata percepita dalla città. E, nelle condizioni date, non poteva esserci, al di là degli sforzi e delle capacità del sindaco e degli assessori. La guerra di logoramento ha oscurato, anzi vanificato anche i risultati positivi che sono stati raggiunti dall’azione di governo. Perfino sulle misure più scontate del piano traffico presentato, come innovativo e rivoluzionario, ci sono state frenate e ripensamenti imposti. Imbarazzante vedere qualche giorno fa il sindaco Salvemini, dopo la minaccia di un ordine del giorno di qualche consigliere di maggioranza, rassicurare il nuovo presidente di Confcommercio sull’assenza di qualsiasi provvedimento anticaos nella mobilità durante i giorni caldi delle festività natalizie.
Il secondo danno riguarda la montante “retorica del rimpianto” di vecchie esperienze amministrative, nonostante le luci sinistre gettate su quelle esperienze dai recenti sviluppi di inchieste giudiziarie e nonostante le fin troppo oscure “camere di compensazione” di un tempo. Se un Finamore qualsiasi, o qualche altro transfuga diventano gli arbitri assoluti delle sorti del governo della città, appare davvero difficile, purtroppo, che nell’immaginario collettivo non si finisca per rivalutare e rimpiangere il passato. E il guaio è che, insieme a questo sentimento che comincia a diffondersi nella città, riemergono e conquistano centralità visioni e interessi dei settori più conservatori e corporativi della società. Il segnale più evidente è il ritorno, a gran voce e con pieno diritto di cittadinanza, delle logiche dei bottegai da paesone di provincia più che degli imprenditori di una moderna città del turismo culturale. Una regressione significativa rispetto al clima nuovo respirato fino a qualche anno fa. Non solo. La crescente delusione sta facendo velocemente rifluire quella ventata di civismo che, nonostante i molti limiti e qualche discutibile protagonismo, ha comunque contaminato negli ultimi anni la politica cittadina leccese. Basti pensare a ciò che sta avvenendo nel centrodestra, dove il ritorno di vecchi capi e vecchi nomi, dopo i disastri di due anni fa, rischia di sommergere quel percorso di fermento e di rinnovamento, negli uomini e nelle idee, che nonostante la sconfitta si era venuto creando intorno alla candidatura di Giliberti e con MoviMenti. C’è il rischio concreto, insomma, di un ritorno all’indietro e a gestioni familistiche in reazione all’annunciata ma non percepita svolta di questi due anni. Un peccato. Un’occasione sprecata.
E veniamo al terzo e ultimo danno. Alla conclusione ufficiale della storia, il centrosinistra rischia di presentarsi ancora più “sinistrato” e “desertificato” di quanto non fosse già due anni fa, risultato vincente - è bene ricordarlo - solo grazie alla connessione sentimentale di Salvemini con la città e alle velenose divisioni del centrodestra. Anche in questo campo, l’apporto e il coinvolgimento del civismo, soprattutto sul versante della sinistra, si sono rivelati assai scarsi nella produzione delle decisioni reali. E con un centrosinistra verosimilmente “desertificato” ci vorranno anni, se non decenni, per rimettere in piedi una parvenza di alternanza nel governo della città, vista l’inconsistenza del M5s e il suo arretramento ancora più marcato in Puglia per i clamorosi dietrofront su Tap, Ilva e xylella.
A chi giova, dunque, non prendere atto di una storia finita (anzi, mai cominciata)? A chi giova questa sorta di accanimento terapeutico su una consigliatura nata con il nodo dell’anatra zoppa e tenuta in vita da tre transfughi legatissimi al parlamentare leghista Marti? Di sicuro, non alla città. E nemmeno a Salvemini, che paga il prezzo più alto di questo logoramento proprio perché era stato lui a vincere due anni fa e non la coalizione. Il sindaco dice di voler portare a termine la manovra di risanamento dei conti e poi decidere che cosa fare nella prima decade di gennaio. Ha ragione e fa bene. Lo impongono cultura istituzionale e senso di responsabilità. Ci permettiamo solo di auspicare che il sindaco, con la stessa cultura istituzionale e con lo stesso senso di responsabilità, stavolta non scelga l’opzione “minimalista” (qualcuno che vuole mantenersi stretto il seggio in Consiglio si trova sempre), ma la strada maestra che avrebbe dovuto imboccare già un anno fa per non lasciare la città in balìa di novelli quanto improbabili statisti. E tenga alla larga quei “consigliori” interessati nel Pd, a Bari e dintorni, che vedono come intralcio il voto anticipato per Palazzo Carafa perché temono di perdere la “casamatta” Lecce nella battaglia per la guida della Regione tra un anno e mezzo. Che la decisione venga presa solo ed esclusivamente sulla base degli interessi della città.
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