Sulle elezioni lo spettro del vuoto di potere

Sulle elezioni lo spettro del vuoto di potere
di Alessandro CAMPI
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Lunedì 19 Febbraio 2018, 18:50
Sono in molti a pensare che la campagna elettorale in corso potrebbe risultare, una volta terminata, la più insipida e improduttiva della storia repubblicana. Da parte delle forze in competizione non sono sinora venute proposte minimamente plausibili e argomentate sui grandi temi che sono al centro dell’interesse quotidiano dei singoli cittadini e dei gruppi sociali.  Si è preferito puntare sulle promesse roboanti (che se realizzate manderebbero lo Stato in bancarotta) e sui toni virulenti e aggressivi nei confronti degli avversari. La propaganda elettorale, almeno sino a questo momento, è stata interamente incentrata sulle opposte demagogie in materie d’immigrazione, sull’anacronistica contrapposizione fascismo-antifascismo e sulla grottesca vicenda dei mancati rimborsi grillini. Ne è nato un clima, dominato dall’esasperazione del linguaggio e dalla facile demagogia, che rischia di incentivare l’astensionismo.

Ma il vero pericolo di questa situazione è che, all’indomani del voto, potremmo trovarci senza una maggioranza parlamentare minimamente omogenea dal punto di vista politico e come tale in grado di far nascere un governo autonomo e credibile. Si tratta di una difficoltà – come ha spiegato ieri su queste colonne Romano Prodi – che non riflette solo il peculiare caos italiano. Ma è invece il risultato delle profonde trasformazioni che nel corso degli ultimi anni hanno investito la gran parte delle democrazie europee, sempre più politicamente frammentate al loro interno e incapaci di affrontare le gravi turbolenze sociali causate dal prolungarsi della crisi economica e dal dispiegarsi della rivoluzione tecnologica.

Potremmo dunque andare incontro anche noi ad un vuoto di potere come è già capitato in tempi recenti al Belgio, alla Spagna, all’Austria e alla Germania. Una fase di travaglio alla fine della quale una soluzione politico-parlamentare comunque si troverà. Quella del governo di coalizione o di larghe intese tra Renzi e Berlusconi è al momento la più gettonata: ma si dimentica che le ‘grandi coalizioni’ hanno bisogno per funzionare di condizioni politico-culturali che in Italia mancano largamente. C’è innanzitutto un problema di stile e di mentalità: per collaborare al governo tra avversari non ci si può demonizzare a vicenda e serve una visione pragmatica, condivisa e non retorica dell’interesse nazionale: l’opposto quindi del modo di fare della politica italiana. C’è poi un problema di metodo: in Germania o in Austria, per fare un esempio, le larghe intese non sono un patto sulla fiducia tra due personalità, ma l’accordo politico frutto di minuziose ed estenuanti trattative tra partiti che a loro volta hanno dietro di sé vasti apparati e una solida organizzazione. Anche questo non sembra essere il caso del nostro Paese, dove i partiti sono ormai poco più che sigle elettorali nella disponibilità di singoli leader o di ristretti gruppi di potere.

Maggiormente plausibile potrebbe risultare, in caso di necessità, la soluzione del «governo del presidente»: quella cioè di un esecutivo guidato da una personalità estranea ai partiti (o comunque non particolarmente esposta sul piano politico) che possa godere di un vasto e trasversale consenso parlamentare.

Ma il problema non è la formula tecnica che verrà escogitata per dare all’Italia un esecutivo: un impegno che cadrà in gran parte sulle spalle del Presidente della Repubblica. Il problema sono le cose che un governo nato non dalla vittoria alle urne, ma dalla mancata affermazione politica di una delle coalizioni o forze attualmente in campo, potrà e soprattutto dovrà fare. Romano Prodi, nell’articolo citato, ha posto un obiettivo limitato, preciso ma dirimente: la discussione e approvazione al più presto di una nuova legge elettorale, dal momento che quella con cui saremo presto chiamati ad esprimerci s’è capito che è una mal riuscita sintesi di maggioritario e proporzionale. Che oltre a non darci (probabilmente) una maggioranza univoca, col meccanismo delle liste bloccate e dei parlamentari scelti de facto dalle segreterie dei partiti ha drasticamente ridotto il potere di scelta dei cittadini e accentuato dunque il loro malessere nei confronti della politica.

Richiamando le uniche due realtà democraticamente virtuose rimaste in Europa, la Gran Bretagna (dove si vota con sistema l’uninominale a turno unico) e la Francia (dove si usa il maggioritario a doppio turno), Prodi ha indirettamente espresso le sue preferenze. Spiegando che il vero obiettivo di una nuova legge elettorale (da votare all’inizio della legislatura, non come si è fatto con Porcellum e col Rosatellum quando si era ad un passo dalla sua conclusione) deve essere quello di «permettere la pronta formazione di un governo» e «di conoscere fin dalla sera stessa delle elezioni chi sarà il primo ministro». In tempi turbolenti come quelli che viviamo, lunghe fasi di incertezza politica possono effettivamente tradursi in un grave danno per la vita collettiva: specie per una realtà intrinsecamente debole, in particolari nei rapporti con i suoi partner internazionali, quale è l’Italia.

Si tratta di un’indicazione politica, o per meglio dire di una invocazione, della quale fare tesoro. La sola idea, che pure è stata ventilata, che in caso di impasse parlamentare si debba tornare a votare con la legge vigente dimostra il grado d’irresponsabilità dell’attuale classe politica. Ma l’occasione di una nuova legge elettorale dovrebbe servire per risolvere non solo il problema della governabilità – che nel dibattito politico-politologico italiano si è trasformato in un’ossessione persino eccessiva – ma anche quello, altrettanto importante, della qualità della classe parlamentare (strettamente legato al tema della partecipazione democratica e della rappresentanza). In Italia la distanza tra cittadini e ceto politico è da anni sempre più grande. L’attuale meccanismo di voto rischia di accrescerla sino ad un punto di rottura. I parlamentari, essendo designati dall’alto, spesso senza avere alcun radicamento territoriale o sociale, nonché cooptati secondo logiche di fedeltà personale e senza garanzie di un’effettiva capacità, quasi nemmeno sentono il bisogno di incontrare i loro elettori, nei confronti dei quali – terminata la legislatura – tanto non avranno alcun rendiconto da presentare essendone i rappresentati solo in senso formale.

Un distacco tra politica e cittadini, basato sulla disistima (peraltro meritata) di questi ultimi verso i primi, che rischia di essere non meno grave per la nostra democrazia dei vuoti di potere o dei governi che nascono sulla base di maggioranze fragili o troppo disomogenee. E che, come suggerisce saggiamente Prodi, si dovrà cercare di rimediare con una legge elettorale che restituisca ai cittadini sovrani lo scettro perduto e all’Italia la classe politica, capace e responsabile, di cui ha un così drammatico bisogno.


 
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