Il futuro sostenibile. La nuova sfida della democrazia

di Michele CARDUCCI
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Lunedì 5 Marzo 2018, 17:14
Quale sarà il futuro dell’umanità dal punto di vista istituzionale rispetto alle sfide della “sostenibilità”? A questa domanda sembra aver risposto recentemente, a chiusura del “World Government Summit” di febbraio 2018, il documento intitolato “The Government in 2071: a Guidebook”, redatto dal “Ministero degli Affari Interni e del Futuro” degli Emirati Arabi per la strategia 2030-2117 sui “diritti delle generazioni future”, dopo l’auspicato raggiungimento degli obiettivi ONU 2030 sulla “sostenibilità”. In esso, si parla soprattutto di cambiamenti climatici e incremento demografico della popolazione umana (con una previsione di concentrazione di 146 milioni di persone nelle sole città di Delhi, Lagos e Kinshasa) e si individua nella tecnologia e nella tecnocrazia del c.d. “Homo-augmentus 2.0” (l’essere umano potenziato dalla realtà aumentata) la combinazione vincente per la convivenza sostenibile tra ambiente, crescita e sviluppo.

Il “Government in 2071” preconizza dunque un domani tecnocratico e a-democratico al tempo stesso. Con esso, i “diritti delle generazioni future” godranno di qualcosa che nessuna generazione precedente ha mai avuto (la “realtà aumentata”), ma perderanno qualcosa su cui molte generazioni precedenti hanno sacrificato anche la vita: la democrazia.

La democrazia, già definita “in declino” oggi (come certificano le evidenze empiriche del Journal of Democracy), scomparirebbe dal, o comunque rimarrebbe ai margini del, “domani sostenibile” del Pianeta. Tra i “diritti delle generazioni future” non si consoliderebbe alcun “diritto umano alla democrazia”, mai esplicitamente e inequivocabilmente formalizzato a livello internazionale, ancorché diverse volte rivendicato per emancipare la specie umana dall’egoismo competitivo dei soli diritti individuali.

Il citato documento, però, è uscito quasi contemporaneamente a un saggio pubblicato su “Nature Sustainability” (“A Good Life for All within Planetary Boundaries”), focalizzato sui temi della sostenibilità e dei “diritti delle generazioni future” in prospettiva diversa: la prospettiva del “deficit ecologico” del Pianeta derivante dall’incremento demografico della popolazione umana e dal diffondersi di livelli di consumo di servizi materiali di sfruttamento della natura (a partire dal consumo di suolo e di energie naturali), erogati in aggiunta ai bisogni primari di nutrimento e accesso all’acqua e alle risorse ecosistemiche. Come garantire questa dimensione qualitativa dei “diritti delle generazioni future”, fatta di libertà e aspettative politiche e sociali (informazione, istruzione, salute, benessere, mobilità, riunione, partecipazione, associazione, consumo ecc...)? Come mantenere e diffondere nel futuro le istituzioni e i procedimenti che ne hanno permesso la realizzazione e il mantenimento? In una parola, come coniugare i “diritti delle generazioni future” con la democrazia, che ha storicamente rappresentato l’incubatore istituzionale e sociale di miglioramento qualitativo della vita umana?
L’inquietante interrogativo resta sospeso nel saggio, non costituendone l’oggetto specifico di indagine ma solo la cornice di contestualizzazione dei problemi “qualitativi” della sostenibilità.

Esso, però, dovrebbe identificare la preoccupazione assillante dei giuristi e soprattutto dei costituzionalisti, anche perché il tema dei “diritti delle generazioni future” continua a persistere come questione di “responsabilità intergenerazionale” delle decisioni, piuttosto che di “continuità istituzionale” delle acquisizioni storiche, di metodo e contenuto, delle forme democratiche che le legittimano.

Così purtroppo non è, salvo rarissime eccezioni. E questa disattenzione dei giuristi per il futuro della democrazia rispetto alla sostenibilità e ai “diritti delle generazioni future” spiega anche perché le istituzioni attuali operino in una logica che si potrebbe definire ecosistemicamente dissociata, in quanto produttiva di effetti negativi e destabilizzanti all’interno degli ecosistemi e delle loro biodiversità, quindi non adattata alla condizione attuale di “deficit ecologico” del Pianeta terra (Ulrich Beck l’ha denominata “irresponsabilità organizzata”).

Non a caso, il diritto del presente è stato qualificato (dal giurista tedesco W. Paul) “disfunzionale”, nella misura in cui esso, rispetto alle dinamiche degli ecosistemi e della biodiversità, protegge l’ambiente non “dallo” sfruttamento, bensì “per” lo sfruttamento, minando alla radice la stessa possibilità di risultati effettivi di salvaguardia ecosistemica (del resto, gli obiettivi ONU di sostenibilità al 2020 sono notoriamente falliti, per questo “prorogati” al 2030). Il suo fine primario, in definitiva, resta la manipolazione umana della natura, mentre quello della protezione naturale permane secondario e subalterno.

Nel 1885, Rudolf Clausius pubblicò un saggio intitolato “Sulle riserve di energia in natura e sulla loro valorizzazione per il bene dell’umanità”. Esso pose chiaramente il problema del rapporto tra produzione e consumo di risorse energetiche e regole di funzionamento delle istituzioni, già allora coincidenti con la rappresentanza parlamentare. Il suo contributo aprì le porte all’economica ecologica di F. Soddy, N. Georgescu-Roegen, H. Daly, J-Martinez Alier. Dai giuristi e dai politici, affascinati dalla mitologia del positivismo “creativo” delle forme della realtà, venne del tutto ignorato.

Se ancora oggi giuristi, costituzionalisti e politici continueranno a farlo, porteranno con sé una responsabilità sociale diretta sul declino della democrazia “in nome” della “sostenibilità”, negando alle “generazioni future” conquiste di civiltà istituzionale, costate la libertà e la vita di tanti che, qui e altrove, hanno creduto in un mondo fatto di partecipazione, inclusione, pluralismo, prima ancora che di tecnologia e tecnocrazia da “Homo-augmentus 2.0”.


 
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