La posta in gioco non è solo il governo ma il modello di democrazia

La posta in gioco non è solo il governo ma il modello di democrazia
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 8 Aprile 2018, 19:59
Basta aspettare poche settimane perché si disvelino i piccoli e i grandi inganni delle campagne elettorali. Bastano pochi giorni per ascoltare linguaggi completamente diversi tra prima e dopo il voto. Abbiamo scoperto, nelle ultime ore, che per il M5s l’alleanza con gli altri partiti non è più un “inciucio” o un ignobile patto di potere per il potere, ma è un “contratto” basato su un nobile compromesso; la spartizione delle più alte cariche parlamentari (e poi magari ministeriali, così come le successive le nomine dei manager delle società pubbliche) non sono più “poltronificio” o “manuale Cencelli”, ma legittima intesa tra i vincitori (?) per far funzionare il Parlamento; i contatti nelle segrete stanze (dove è finita la diretta streaming?) e gli accordi inevitabilmente sottosottobanco tra i leader non sono più complotti ai danni degli italiani, ma i primi passi di un “governo del cambiamento”; i parlamentari eletti che cambiano idea rispetto alle posizioni assunte in campagna elettorale non sono più dei “voltagabbana” e “trasformisti”, ma “responsabili” che rispondono agli interessi del Paese. E poi: il reddito di cittadinanza non è più per tutti e per sempre; garantire le aziende di Berlusconi non risponde più a un “diabolico patto di potere”, ma è un giusto riconoscimento a chi sa affrontare e vincere le sfide del mercato.

Si potrebbe continuare, con la clamorosa autocritica che i vertici del M5s stanno effettuando, giorno dopo giorno, verso il Pd e il suo gruppo dirigente, accusato e insultato fino al 4 marzo di essere “mafioso”, al servizio dei banchieri e della massoneria, corrotto e colluso con i poteri opachi. Finanche il giudizio su chi ha governato negli ultimi anni sta repentinamente cambiando: Renzi e il renzismo non rappresentano più il male assoluto, viene riconosciuto che alcuni ministri (Franceschini, Minniti, Delrio, Madia) “hanno lavorato bene”, è stato considerato addirittura “lungimirante” il piano industria 4.0 del ministro Calenda, ed è stato giudicato “positivo” il reddito di inclusione messo in campo dal governo Gentiloni nella lotta contro la povertà. Potenza della politica e della maledetta voglia di entrare nella stanza dei bottoni, anche al costo di contraddire tutto ciò che si è affermato per anni e che è stato annunciato in campagna elettorale per catturare consensi.

Non sappiamo se e quanto resteranno delusi i tanti elettori che hanno espresso il proprio voto sulle cose ascoltate in campagna elettorale, oggi così palesemente contraddette. Vedremo. Di sicuro, il cambio di registro dopo le elezioni è normale. Tutto già visto in politica. Propaganda e tattica sono una cosa, la strategia (quando c’è) e le scelte di fondo sono altro. E bisogna saper sempre distinguere tra le une e l’altra. Il punto, piuttosto, è un altro. È capire se dietro questa “normalizzazione” del linguaggio, che corrisponde oggettivamente a una fase di crescita politica (e non solo elettorale), ci sia anche una profonda riconsiderazione del modello di democrazia e di cultura istituzionale al quale si è fin qui ispirato il movimento. Per le altre forze politiche, in particolare della sinistra, dovrebbe essere soprattutto questo il banco di prova dove misurare la possibilità di un’eventuale alleanza di governo con i pentastellati. Torna perciò incomprensibile la posizione di quanti, soprattutto a sinistra, un anno fa scesero in campo per bocciare la riforma istituzionale in nome della democrazia (rappresentativa), in difesa della Carta costituzionale più bella e avanzata del mondo, contro la presunta deriva autoritaria del renzismo, e oggi spingono, dentro e fuori il Pd, per un’alleanza di governo con il M5s. Come se la posta in gioco fosse soltanto la formazione di un governo, e come se un’alleanza si possa fondare solo sulla convergenza di alcuni punti programmatici, lasciando sullo sfondo le divergenze di fondo sulla visione della democrazia, anzi ignorando del tutto il possibile stravolgimento dei principi e dei caratteri stessi della democrazia.

È passato quasi inosservato il regolamento, preparato dagli avvocati della Casaleggio associati, che i nuovi parlamentari del M5s sono stati costretti ad approvare, una settimana fa, senza fiatare e senza poter esprimere alcun dubbio. Tutto il potere è stato legalmente blindato nelle mani del capo politico del movimento, Luigi Di Maio, sempre più uomo solo al comando e leader solitario, che risponde solo ed esclusivamente alla Casaleggio associati. È lui che sceglie e nomina i capigruppo parlamentari (con i deputati e i senatori che ratificano), i vicecapogruppo, i segretari, il tesoriere e il capo dell’ufficio comunicazione. È lui che può applicare dure sanzioni contro chi assume “comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del movimento a vantaggio degli altri partiti”. Critiche e dissensi possono essere puniti non solo con l’espulsione (decise naturalmente dal capo) ma anche con la penale di 100mila euro. Senza dimenticare il ruolo determinante della piattaforma Rousseau, gestita da un’associazione privata, nella selezione dei candidati alle primarie e nella gestione stessa delle primarie a colpi di pochi clic. E senza dimenticare del contributo che gli stessi parlamentari eletti “devono devolvere” alla piattaforma.

Tutto normale, dunque? Si tratta solo di questioni interne al movimento? Per nulla. Quel regolamento approvato rappresenta la quintessenza della concezione della democrazia che hanno i vertici del M5s e segna, di fatto, ove mai ce ne fosse ancora bisogno, che il farlocco principio “uno vale uno” è diventato - come si prevedeva - “uno vale tutti”. Non solo. Quell’uno che vale tutti risponde direttamente non agli elettori (dove sono i rigidi e puri custodi della Carta costituzionale?), ma ad un’associazione privata, guidata per successione familiare dal figlio di chi l’ha inventata. Chiaro? Si sta avverando ciò che, anche su queste colonne, era stato scritto in tempi non sospetti: dietro la demolizione della cultura della rappresentanza, dietro l’indifferenziato disprezzo e odio seminato verso tutti i rappresentanti, raggruppati nella parola “casta”, dietro il falso mito della società democratica orizzontale garantita dalla rete, senza gerarchie, senza corpi intermedi, senza filtri, senza mediazioni e senza classe dirigente, emerge in modo palese la grave e mai risolta contraddizione emersa già negli scritti del teorico della democrazia diretta, Jean-Jacques Rousseau, tra “volontà generale” e “volontà di tutti”. Una contraddizione in cui si annidava e si annida il fondamentale e taumaturgico ruolo del “capo virtuoso e puro”, più virtuoso e più puro di tutti gli altri. E qui torniamo al punto, al doppio registro di queste settimane: da una parte, la normalizzazione del linguaggio, il volto moderato, perfino l’autocritica rispetto al passato; dall’altro, il serrare le fila interne con un ulteriore rafforzamento dei poteri del capo “più virtuoso e più puro” di tutti gli altri, in diretto collegamento (c’è chi dice: eterodiretto) con un’associazione privata. Sarà questo pure lo sbocco, come insegna la moderna politologia, della democrazia post-partitica o del pubblico, dove la rappresentanza non è più per gruppi, ma per temi e questioni che trovano la sintesi in un leader o in un movimento, supportato dalla rete, ma è evidente il gigantesco e pericoloso vuoto democratico che si viene a creare. Altro che riforme istituzionali di Renzi. Altro che pericoli autoritari e brividi per l’uomo solo al comando.

Può, allora, una forza autenticamente democratica chiudere gli occhi di fronte a questa deriva? Può un partito che crede nei principi della Repubblica democratica, nella Carta costituzionale, nella sovranità popolare e nella funzione centrale del Parlamento e dei parlamentari trovare punti programmatici comuni per l’alleanza di governo con un movimento che calpesta così vistosamente gli articoli più importanti della Costituzione? Si dirà: non si può non tener conto che il 32% degli italiani ha votato per il M5s. Verissimo. Ma non si può non tener conto che di fronte a noi, e a tutte le democrazie occidentali, c’è una sfida molto più grande della formazione di un semplice governo. Non si può non tener conto che Cambridge Analytica è solo l’inizio. Non si può non tener conto, e lo scopriamo con colpevolissimo ritardo (dell’intellettualità), che tra democrazia e tecnologia si è venuto delineando un rapporto fortemente conflittuale, se non antagonistico; non si può non tener conto che dietro l’apparente esaltazione dell’eguaglianza e della più totale libertà che mostrano di dispiegare la rete e la comunicazione digitale, si nasconde in realtà una evidente e pericolosissima regressione dei fondamentali stessi della democrazia, dei suoi caratteri, dei suoi tratti distintivi. Dilaga la tendenza a semplificare, comprimere, velocizzare ciò che è invece è inevitabilmente complicato, necessariamente lungo, oggettivamente lento. C’è, insomma, una posta in gioco molto più alta di quella di dar vita a un governo. C’è all’orizzonte, nemmeno molto lontano, una battaglia difficilissima per tenersi a debita distanza dai confini dei regimi autoritari, dispotici, illiberali che continuano ad affermarsi nel mondo, anche grazie e soprattutto alla manipolazione della rete.

Questa è la fase che viviamo. Certo, si tratta di una battaglia che deve coinvolgere e riguardare anche gran parte di quel 32%. Non inseguendola, però, sul terreno della demolizione della rappresentanza, o sperando che la bolla si sgonfi alla prova del governo (con conseguenze altrettanto pericolose sulla tenuta della democrazia), ma convincendola giorno dopo giorno del grande abbaglio che sta vivendo. C’è una prateria per le forze democratiche e riformiste. E suona strano che chi, legittimamente e con convinzione, ha contrastato le riforme istituzionali nel nome della difesa della Costituzione, non si accorga che le divergenti visioni della democrazia siano molto più importanti di qualche (forzato) punto programmatico in comune. Sicuramente più importanti, dal punto di vista storico, della voglia di fare un altro sgambetto a Renzi.


 
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