Debito pubblico: per il governo il momento delle verità e delle scelte

Debito pubblico: per il governo il momento delle verità e delle scelte
di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Domenica 2 Settembre 2018, 19:50
Uno dei principali problemi che il Governo dovrà affrontare, a partire dalla ripresa estiva, riguarda la sostenibilità del debito pubblico. Il tema è di massima urgenza dal momento che, con l’annunciata fine del cosiddetto quantitative easing (e dunque dell’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce), si rischia di non trovare acquirenti privati in numero sufficiente e disponibili a comprare titoli italiani. Oppure, se disponibili ad acquistarli, lo saranno solo se cresceranno i rendimenti.

Si calcola, a riguardo, che la spesa complessiva per il pagamento degli interessi sul debito è passata dagli 85 miliardi del 2012 ai 65 miliardi del 2017. Effetto del programma di acquisti della Bce, avviato appunto nel 2015. Il problema è di per sé rilevante - la vendita di titoli di Stato serve a finanziare la spesa pubblica - e lo è ancor più considerando che il Governo in carica si propone di aumentarla, sforando il tetto del 3% del rapporto debito/Pil stabilito nei Trattati europei. Va chiarito che da molti anni i titoli di Stato non sono più comprati dalle famiglie italiane attingendo ai loro risparmi.

È lontana e irripetibile la stagione dei cosiddetti Bot people, la stagione, cioè, nella quale famiglie italiane anche con redditi medio-bassi potevano tenere elevati i loro consumi ricavando rendimenti nell’ordine del 20% dall’acquisto di Buoni ordinari del Tesoro. Nel 2009, i titoli di Stato in circolazione erano poco più di 1400 miliardi ed erano prevalentemente detenuti da Istituzioni sovranazionali. Nel 2018, il valore dei titoli di Stato è di circa 2000 miliardi, la gran parte dei quali detenuta da banche italiane. Dal 2009 al 2018 si è assistito infatti a una fuga dai titoli di Stato italiani da parte di investitori esteri, con una riduzione di acquisti nell’ordine di circa 40 miliardi.

Non vi è dunque da aspettarsi che per i prossimi anni i nostri titoli siano acquistati dalla Bce né da investitori esteri e tantomeno da piccoli risparmiatori (i rendimenti sono bassi e i risparmi in diminuzione). Possibili acquirenti, come già accade ora, sono le banche italiane. Ma l’acquisto di titoli di Stato da parte di banche italiane crea due ordini di problemi. Innanzitutto, acquistando titoli, le banche riducono l’erogazione di credito a imprese e famiglie, con conseguente riduzione di investimenti e consumi. In secondo luogo, la speculazione da parte delle banche è resa possibile e conveniente da un accordo implicito per il quale eventuali perdite saranno ripianate da salvataggi pubblici. Il che crea un problema di “azzardo morale”: confidando nell’intervento pubblico, le banche possono intraprendere anche attività speculative estremamente rischiose. A pagarne il conto è in via diretta lo Stato, in via indiretta i cittadini tramite aumenti di tassazione e/o riduzione di spesa. La tassazione in Italia è molto più regressiva della media dei Paesi Ocse: ovvero, in termini percentuali, sono i più poveri che pagano più dei più ricchi. E pesa molto sul cosiddetto ceto medio. Si calcola a riguardo che le imposte prelevate su operai e impiegati - nella fascia di reddito compresa fra i 20mila e i 55mila euro - contribuiscono nella massima misura a garantire l’attuale gettito fiscale.

È ragionevole ritenere che anche questa strada - confidare nel sistema bancario per collocare titoli di Stato - appare difficilmente percorribile o quantomeno difficilmente reiterabile con la stessa intensità con la quale è stata fin qui percorsa. Ciò sostanzialmente a ragione del fatto che il Governo può solo confidare in una ripresa dei prestiti bancari a imprese e famiglie per invertire il ciclo e avviare un sentiero di crescita. Da questo dipende il suo consenso e da questo dipende anche la capacità di rimborsare i creditori attraverso il maggior gettito fiscale garantito appunto dalla maggiore crescita.

Nel 2019 verranno a scadenza 200 miliardi di titoli di medio-lungo termine, che si sommano ai 150 miliardi di Buoni ordinari del Tesoro. Data la fine del quantitative easing, è molto verosimile immaginare che gli interessi da pagare aumenteranno. La propaganda leghista contro gli immigrati ha occultato il problema, almeno per la gran parte dell’opinione pubblica.

È passata pressoché inascoltata la dichiarazione del ministro Savona finalizzata a stringere rapporti di più intensa “solidarietà” con la Russia di Putin per l’acquisto dei nostri titoli. Così come è stato pressoché dimenticato il viaggio del ministro Tria in Cina, anch’esso finalizzato a persuadere investitori stranieri ad acquistare nostri titoli. La disponibilità della Banca Popolare Cinese ad accrescere i suoi acquisti di titoli italiani sembrerebbe subordinata alla creazione di zone franche per le esportazioni cinesi (la cosiddetta nuova via della seta), con riferimento, in particolare, al porto di Trieste.

Si è dunque in cerca di istituzioni straniere che siano disponibili ad acquistare titoli italiani, in una condizione del tutto sfavorevole. L’economia italiana prosegue il suo percorso recessivo e non vi è alcun fattore rilevante che possa indurre a prevedere una inversione di tendenza. Poiché chi acquista titoli lo fa solo a condizione di avere una ragionevole certezza di ottenerne il rimborso maggiorato con gli interessi, e poiché questa condizione si rende possibile solo mediante maggiore crescita, è verosimile aspettarsi che la persuasione sia del tutto inefficace.

La crescita economica è infatti la condizione necessaria per la sostenibilità del debito. In più, come sottolineato da molti analisti, cedere titoli a stranieri è generalmente più rischioso di venderli a investitori italiani: i primi sono normalmente meno interessati dei secondi ai destini dell’economia italiana. Non è questione di patriottismo. Il capitale finanziario internazionale può muoversi, di norma, molto più rapidamente di quello italiano, sapendo che vi sarà sempre un Paese disponibile a consentirgli di trarre profitti tramite attività speculativa. Per quanto anch’esso potenzialmente mobile su scala internazionale, il capitale finanziario italiano può avere maggiore interesse a restare in Italia, se non altro per difendere politicamente i suoi interessi. Neppure giova il braccio di ferro con l’Europa. L’Unione è formalmente costruita come cooperazione fra Stati ed è di fatto un luogo di conflitto fra i Paesi che vi appartengono. L’esito del conflitto non dipende dall’aggressività di un leader politico (sarebbe banale ritenerlo), né, almeno nel caso italiano, dalla minaccia di abbandono unilaterale dell’euro. L’esito della negoziazione dipende essenzialmente dal potere politico di uno Stato e la misura del potere politico di uno Stato è il suo Pil.

Peraltro occorre far presto. Il Governo deve trovare a breve finanziamenti necessari per far fronte a spese non derogabili, p.e. il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego del dicembre prossimo. Il rischio - che al momento sembra una certezza - è che, nell’impossibilità di trovare finanziamenti per attuare il programma di governo (reddito di cittadinanza, flat tax, abolizione della riforma Fornero), ci si impantani nell’immobilismo, provando ad acquisire, o non perdere, consensi attraverso la propaganda della paura dello straniero.


 
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