Intercettazioni, il decreto lascia aperti troppi buchi

Intercettazioni, il decreto lascia aperti troppi buchi
di Giovanni VERDE
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Venerdì 3 Novembre 2017, 16:25
Il legislatore aveva dato delega al governo per l’emanazione di un decreto in materia di intercettazioni, fissando i criteri ai quali si sarebbe dovuto attenere. Erano criteri assai ampi (quali si leggono nell’art. 1, comma 84 lettere a), b,c), d) ed e) della legge n. 103 del 2017). Il legislatore delegato, ad esempio, doveva dettare norme per garantire la riservatezza dei colloqui con il difensore; per tutelare le persone occasionalmente coinvolte nelle intercettazioni, per evitare la diffusione indebita di dati sensibili; per rendere possibili le intercettazioni utilizzando il captatore informatico su dispositivo elettronico portatile (il cosiddetto trojan). Oggi il decreto è stato predisposto e dovrà essere emanato dal Capo dello Stato.

Si era parlato di un’udienza “filtro”, nella quale, nel contraddittorio delle parti, si sarebbero valutate le registrazioni da stralciare perché irrilevanti o perché acquisite indebitamente. Di essa nel decreto non c’è traccia. Resta che il pm deposita gli atti entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, chiedendo al giudice l’autorizzazione all’acquisizione e dandone contestuale comunicazione ai difensori, che hanno cinque giorni per prenderne visione e fare richieste ed osservazioni. Nei successivi cinque giorni il giudice decide. Gli atti stralciati vanno conservati in un archivio tenuto dal pubblico ministero. Alle parti è lasciata la possibilità di chiederne la distruzione a tutela della riservatezza.

Soltanto dopo che il giudice abbia disposto la trascrizione delle registrazioni le parti possono estrarne copia. Ci chiedevamo prima e continuiamo a chiederci oggi se questo sistema sia a ragionevole tenuta, posto che di regola le intercettazioni si dipanano in migliaia di pagine trascritte (così che il controllo in tempi brevi è del tutto aleatorio) e che, una volta acquisite, restano (a quanto pare) utilizzabili. Lascio da parte la segretezza dei dati conservati nell’archivio (le esperienze pregresse non sono incoraggianti).

Il secondo comma dell’art. 266 c.p.p. risulta oggi così formulato: «Negli stessi casi (indicati nell’art. 266) è consentita l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, “che può essere eseguita anche mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile” (frase aggiunta). Tuttavia qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall’art. 614 del codice penale, “e si procede per delitti diversi da quelli di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater” (frase aggiunta), l’intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa». In sostanza il legislatore delegato ha equiparato totalmente alle tradizionali intercettazioni l’uso del “trojan”.

Era questo il compito che gli aveva affidato il legislatore delegante? O non avrebbe dovuto il legislatore delegato disporre limiti ulteriori, in considerazione della particolare invasività dello strumento “captatore”? Il legislatore si è limitato a disporre (inserendo un comma nell’art. 267 c.p.p.) che «Il decreto che autorizza l’intercettazione…mediante inserimento di captatore informatico…indica le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini; nonché, se si procede per delitti diversi da quelli di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono». Di più: il pubblico ministero può fare a meno dell’autorizzazione in caso di urgenza, ma soltanto nei procedimenti per delitti di mafia e terrorismo.

Di sicuro la delega si è limitata a prevedere che fosse disciplinato espressamente l’uso del “trojan”. Non diceva altro. Il legislatore ha utilizzato la vaghezza del criterio, procedendo a una sua completa assimilazione alle tradizionali intercettazioni. Si potrebbe dubitare della correttezza della delega e della ragionevolezza della disciplina predisposta dal legislatore delegato. Staremo a vedere. Il cittadino è avvertito. Da oggi, è possibile che egli sia “captato” a sua insaputa e soltanto perché si ritiene che possa essere coinvolto in un qualsiasi reato (essendo l’elenco dei reati per i quali sono possibili le intercettazioni, di cui all’art. 266 c.p.p., pressoché illimitato). E forse, se non è colto dalla sindrome giustizialista (alimentata da chi della denuncia ha fatto una professione), potrebbe andare indietro negli anni, a quei periodi non esaltanti della nostra storia (ben rappresentati, ad esempio, nei romanzi di Maurizio De Giovanni che hanno per protagonista il commissario Ricciardi). Potrebbe essere indotto a rapportare quei tempi, in cui vi era un controllo ossessivo delle nostre vite, ai tempi attuali, in cui il controllo è reso anche più invasivo per i mezzi tecnici a nostra disposizione. E potrebbe chiedersi per che cosa i nostri Padri hanno lottato, se i diritti fondamentali di libertà consacrati nella nostra Carta costituzionale sono considerati poca cosa, in quanto essi cedono alle esigenze della legalità, che li sopravanza.

Il presidente dell’Anm si duole perché la legge costituirebbe un passo indietro rispetto a una sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione che ampliava la possibilità di utilizzare i captatori informatici, in quanto «dare al pubblico ministero più strumenti per intercettare serve a rendere effettiva l’efficacia investigativa». Il punto è questo. Le esigenze dell’indagine penale fanno aggio sui diritti di libertà, che sono il sale della democrazia. Ci dobbiamo rassegnare.

Tutto ciò non può non porre un ulteriore problema. I pubblici ministeri fanno parte di un corpo unico, la magistratura, al quale è affidata l’amministrazione della giustizia. Bisogna ritenere, pertanto, che il ruolo della magistratura sia quella del contrasto alla illegalità. Questo, tuttavia, può essere il compito dei pubblici ministeri. Di sicuro non è il compito dei giudici, ai quali spetta una funzione essenziale di garanzia, quale è quella di emanare la decisione (di condanna o di assoluzione) a conclusione del giusto processo. Oggi assistiamo ad una singolare inversione di metodo, perché le esigenze di una parte (quella requirente) di un organismo che amministra giustizia prevalgono su quelle dell’altra parte (quella giudicante), che dovrebbe costituire invece il perno principale dell’organizzazione. E non è un caso che a capo dell’Anm vi siano per solito pubblici ministeri (o giudici rimasti nell’intimo pubblici ministeri). È una situazione ibrida che sarebbe necessario dipanare, perché lo statuto dei pubblici ministeri non può essere completamente assimilato a quello dei giudici. Se essi reclamano e ottengono di potere indagare sulle nostre vite private senza alcun limite e se di ciò non possiamo fare a meno, bisogna trovare dei rimedi per fronteggiare adeguatamente i possibili abusi.
 
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