Le imprese e il Paese, insieme orfani di una politica industriale

Le imprese e il Paese, insieme orfani di una politica industriale
di Giuseppe BERTA
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Mercoledì 20 Marzo 2019, 17:00 - Ultimo aggiornamento: 17:01
All'Italia mancava ancora il paradosso di un governo con manifeste tendenze sovraniste che ha di fronte la questione di intese mirate alla cessione, quanto meno parziale, di componenti consistenti del nostro apparato economico e produttivo. Se ne è parlato soprattutto nell'imminenza del viaggio del leader cinese Xi Jin Ping in Italia, per quanto riguarda la Via della Setta e un'intensificazione della presenza di Pechino nella nostra economia. Ieri il tema è tornato alla ribalta dopo l'intensificarsi delle voci su un possibile accordo o alleanza tra il gruppo automobilistico francese (ma anch'esso con una consistente quota cinese nel proprio azionariato) Psa con Fiat Chrysler. Una prospettiva valutata positivamente da molti operatori, soprattutto di Borsa, che hanno salutato la notizia con un consistente incremento del valore delle azioni Fca a Piazza Affari.

Naturalmente, è facile prevedere che una trattativa di merito sarà anche inevitabilmente complessa. Psa è un gruppo molto interessato a una partnership con Fca perché, se il suo azionariato è composito (vi si ritrovano con quote del 14,1% la famiglia Peugeot, lo Stato francese, la cinese Dongfeng Motors), il suo mercato è concentrato sull'Europa.  È chiaro che un accordo con Fiat Chrysler aprirebbe la porta al mercato americano e, soprattutto, farebbe compiere un salto di qualità alle dimensioni delle due imprese: dal loro incontro potrebbe sorgere una realtà da oltre 8,5 milioni di vetture all’anno, con la scalata di varie posizioni nella classifica dei costruttori.

Raccontato così, sembra un affare che recherebbe vantaggio soprattutto al partner francese che, come si è accennato, è il più forte in Europa, ma è privo di una presenza negli Usa, sicché – nonostante l’apporto cinese – non può definirsi certo un gruppo globale. Al contrario, Fca, specie in questi ultimi anni, ha assunto un profilo più marcatamente americano: il suo marchio di maggior successo è Jeep e i suoi profitti vengono prevalentemente dall’altra sponda dell’Atlantico. I marchi italiani (Fiat, Alfa Romeo, Maserati) stanno invece perdendo terreno in Europa, mese dopo mese. D’altronde, mentre il piano degli investimenti negli Stati Uniti, pari a 4,5 miliardi di dollari, è stato accuratamente specificato nei dettagli, quello per l’Italia, indicato complessivamente in 5 miliardi di euro, rimane per il momento nel vago.

Insomma, Fca è forte in America, mentre si va indebolendo in Europa, laddove Psa, solida nel nostro continente e confortata da buoni risultati economici, ha il problema di uscire dai confini europei per affermarsi sui mercati in cui non c’è. E poi, naturalmente, c’è già il pregresso di accordi specifici di collaborazione, in atto da anni. Un incontro fra i due gruppi sarebbe quindi vantaggioso per entrambi?

Qui la risposta deve essere più complessa e articolata. Anzitutto, sembra di capire che l’operazione dovrebbe essere pilotata soprattutto da Psa, che tra l’altro si giova della guida di un manager molto stimato come Carlos Tavares. Fca, invece, non sembra aver ancora superato il trauma prodotto dalla rapida scomparsa di Sergio Marchionne l’estate scorsa. Il suo successore Mike Manley, con solide radici a Detroit, è un abilissimo uomo di prodotto, come dimostrano i risultati di vendita conseguiti in America, ma certo non ha la leadership di Marchionne, la stessa capacità di sorprendere i mercati con le sue iniziative. Per di più, è da tempo che si sente parlare dell’intenzione della famiglia Agnelli e del suo capofila John Elkann di ridurre l’impegno nell’auto, diversificando maggiormente gli investimenti. E la contrazione della produzione automobilistica in Italia ne è la conseguenza.

Fca è riuscita a non far percepire l’entità della ritirata dall’Italia, avvenuta un po’ alla volta, a dosi omeopatiche. Ma a questo punto, vada o no in porto la trattativa con Psa, siamo ormai giunti al momento della verità: quale sarà il futuro della produzione automobilistica nel nostro Paese?

Posto che l’egemonia in Europa sarebbe inevitabilmente di Psa, possiamo ragionare su due scenari. Nel primo, prevale nettamente il rilievo che avrebbe comunque lo stabilimento di Melfi, dove si realizzano le Jeep, che hanno conquistato quote del mercato europeo. È chiaro che è una fabbrica indispensabile, visto il peso che ha il marchio Jeep. Mentre il rischio della sovrapposizione con la produzione continentale di Psa esiste. C’è però un secondo scenario: che il gruppo francese voglia investire nel rilancio dei marchi italiani (Alfa e Maserati in testa), ciò che potrebbe potenziare il loro richiamo di mercato.

Sono tutte ipotesi che in altri paesi europei, dove è ancora di casa la politica industriale ed è ben vivo il senso dell’interesse nazionale, verrebbero accuratamente vagliate. Ma da noi? Esiste forse una visione a lungo termine del nostro (eventuale) futuro industriale? E dove se ne discute? E ancora: la produzione automobilistica deve continuare o no a costituire un asse del nostro sistema produttivo e della nostra economia? Purtroppo, sono domande che non ricevono una risposta positiva.

 
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