Le sei buone ragioni per scioperare in difesa del clima

Greta Thunberg, la studentessa svedese che sciopera in nome del clima
Greta Thunberg, la studentessa svedese che sciopera in nome del clima
di Michele CARDUCCI
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Giovedì 14 Marzo 2019, 21:55 - Ultimo aggiornamento: 21:59
Domani, 15 marzo, si celebrerà il primo sciopero mondiale in tema di cambiamenti climatici. Anche nel Salento. Studenti di scuole e università di tutto il mondo, insieme a docenti, famiglie, cittadini, scenderanno in piazza all'insegna del FridaysForFuture (Fff), l'iniziativa globale che prende il nome dalla protesta portata avanti ogni venerdì da Greta Thunberg, la ragazzina svedese che si è rivolta ai potenti della terra per chiedere loro non solo di rispettare l'Accordo di Parigi sul clima, del 2015 (praticamente disatteso da tutti gli Stati) e dare così seguito agli impegni del recente Cop24 in Polonia, ma soprattutto di fare di più, di non parlare di crisi climatica, senza trattarla come una crisi. Che cosa chiede questo sciopero dei giovani? Si possono rintracciare almeno sei ragioni, dove la prima è tecnica e le altre cinque politiche.

1. La ragione tecnica riguarda le azioni di contenimento della temperatura globale nell'arco di soli dodici anni (ossia con interventi risolutivi entro il 2030). Lo sciopero mira a sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema. Limitare l'aumento della temperatura in tempi stretti è un compito titanico, che implica mutamenti rapidi e drastici del modo di funzionamento di governi, industrie, società. Tuttavia, tale obbligo risulta ormai inevitabile, proprio per scongiurare che la situazione sfugga di mano agli stessi governi, industrie e società. L’ultimo rapporto Onu dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), pubblicato nell’ottobre 2018 e basato - fatto inedito nella storia della scienza - sulla cooperazione di studiosi di qualsiasi provenienza geografica e politica, lo spiega, osservando che, senza importanti riduzioni delle emissioni di gas serra, il mondo arriverà a circa 3 gradi di riscaldamento entro la fine del secolo, con conseguenze catastrofiche su più fonti, da quello degli ecosistemi al degrado della qualità della vita umana, alla diffusione di sempre più aggressive malattie. Senza un sostegno responsabile dell’opinione pubblica, è difficile che i politici, da soli, acquistino coraggio nell’azione.

2. Si spiega così la seconda ragione dello sciopero. Essa investe la sfiducia verso i decisori pubblici, per la loro imperdonabile ignoranza dei temi climatici. Nell’era dei cambiamenti climatici, esercitare la politica risulta ancora più impegnativo, in quanto richiede coraggiose scelte fondate appunto sulla conoscenza. Nell’attuale dilagare della mediocrità, pure questa pretesta appare tristemente titanica. Per questo, lo sciopero climatico rivolge ai politici domande molto elementari: quanti di loro hanno effettivamente letto e compreso i Report dell’Ipcc sui cambiamenti climatici? O quelli del “Club di Roma” sulle soluzioni possibili? O il recente “Global Resources Outlook 2019” dell’Onu sulle catastrofi climatiche e le morti da inquinamento? O quello dell’Oms sui danni alla salute umana? O ancora - riferendosi all’Italia - i documenti dell’Ispra, dell’Enea, del Cnr sulle perdite irreversibili di biodiversità e la scomparsa dei patrimoni dell’umanità (compresa, da noi, Venezia entro la fine del secolo)?

3. La terza ragione è connessa alla seconda e riguarda il cosiddetto “negazionismo climatico”. Ne esistono di diverse forme: da quello esplicito alla Trump o alla Bolsonaro, dichiaratamente interessati a proteggere chi finanzia e corrompe la loro politica, a quelli striscianti prevalentemente diffusi in Europa e fondati sulla ipocrisia di predicare la “sostenibilità ambientale” senza rinunciare né al primato dell’economia finanziaria su quella reale né al paradigma dell’energia fossile come spinta della crescita. È proprio questa logica, denominata “win-win”, a essere riconosciuta da tutti gli osservatori (al netto ovviamente dei “negazionisti” e degli ignoranti) come la causa principale dei problemi ambientali e climatici. Una economia reale e non fossile è sostenibile; una economia finanziaria appiattita sugli interessi fossili, non più. Allora chi sciopera vorrebbe dai politici e dagli imprenditori un po’ più di onestà intellettuale nell’agire e nel decidere al tempo dei cambiamenti climatici: meno parole ipocrite e più azioni di discontinuità rispetto al passato.

4. La quarta ragione è generazionale. Le mezze promesse, i tatticismi, i tentennamenti, gli equilibrismi di politici e imprenditori stanno giocando sul futuro delle nuove generazioni e di quelle a venire. Ecco perché lo sciopero è dei giovani. Per salvare il pianeta, sono rimasti solo dodici anni: questo non è catastrofismo, è previsione scientifica. Certo, come qualsiasi previsione scientifica, essa è passibile di discussione. Ma la (eventuale) discutibilità scientifica della previsione non può mai costituire un alibi per l’inerzia o la perdita di tempo. Lo vietano i trattati internazionali che tutti gli Stati si sono impegnati a rispettare, imponendo a se stessi e agli altri un principio di prevenzione che invece si sta irresponsabilmente tradendo. Ma prima ancora del diritto, lo dovrebbe vietare qualsiasi sentimento di umanità. Nessun genitore, di fronte a una drastica previsione negativa del futuro di suo figlio, tentennerebbe nel prendersi preventivamente cura di lui, in barba a qualsiasi discutibilità scientifica della previsione: noi, a livello collettivo e globale, lo stiamo facendo, da pessimi genitori. Da pessimi genitori, ignoriamo anche noi i prossimi dodici anni entro cui decidere. Alcuni addirittura ci ridono su, ironizzando - nella loro desolante incoscienza - sulla data del 2030, come se gli scienziati avessero parlato di fine del mondo. Invece, la previsione del Report dell’Ipcc implica un’altra prospettiva: indica che, dopo il 2030, se non si interviene da subito con drastiche riduzioni dell’immissione fossile e nuove politiche di produzione di energia, le alterazioni climatiche prodotte dal riscaldamento globale non saranno più - stando alle conoscenze e agli strumenti di cui dispone l’umanità oggi - governabili efficacemente, in termini sia di mitigazione della temperatura che di adattamento della vita umana e degli ecosistemi ai nuovi scenari climatici. Si tratta quindi di una “previsione dell’imprevedibile” che dovrebbe accendere l’intelligenza invece che il sarcasmo.

5. Ecco allora che la quinta ragione contiene un grido disperato di giustizia per gli esseri umani. È giusto far pagare ai giovani e a chi nascerà dopo di noi il prezzo di questa ignavia dell’umanità di oggi? Evidentemente no. Del resto, l’Onu - quindi tutti gli Stati del mondo - ha chiesto all’intera umanità di “superare le sue divisioni” e lavorare insieme per affrontare le grandi sfide del nostro tempo: i 17 obiettivi della sostenibilità per il 2030 (i c.d. SDGs cui l’Italia aderisce) servirebbero allo scopo. Ciononostante, l’umanità sta tradendo se stessa persino su questo fronte: soprattutto l’umanità dei paesi ricchi e industrializzati. Infatti, lungi dal cancellare gli antagonismi esistenti, la crisi climatica sta alimentando un inedito “razzismo”, ambientale e intergenerazionale al tempo stesso; un “razzismo” ancora una volta funzionale al primato dell’economia finanziaria alimentata dall’energia fossile. Dai “mercati del carbonio” ai “permessi di inquinamento”, dai “derivati climatici” alle “obbligazioni catastrofiche”, si assiste a una proliferazione di prodotti finanziari legati a previsioni disumane: la possibilità di speculare sul rischio climatico e quindi sui drammi dell’umanità e della devastazione della natura! Questo cinismo del “business as usual” non ci può e non ci deve lasciare indifferenti. Se lo facciamo diventiamo imperdonabili complici di una macabra logica del mondo, giustamente denominata “thanatocene” perché orientata a concepire la morte come opportunità di guadagno.

6. Si arriva così alla sesta ragione. Chi sciopera rivendica il diritto umano al clima, ovvero una nuova declinazione dei diritti che parta dall’idea del rispetto della natura e degli ecosistemi, quindi della vita, come presupposto stesso di esercizio di qualsiasi altro diritto umano: prima il rispetto di tutto il vivente, il rispetto della “madre terra”, poi le mie pretese personali di diritti. Icasticamente si dice che il diritto umano al clima sarebbe “campato in aria”. In effetti, è appunto così. Senza aria non si può vivere. Senza aria, nessun diritto esiste.
Dobbiamo allora mobilitarci ora, perché altrimenti, in un clima impazzito, l’aria diventerà impossibile e, con essa, i nostri diritti, compresi quelli dei “negazionisti”.

 
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