Il duro prezzo che il Paese sta pagando per lo stallo

di Adelmo GAETANI
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Martedì 24 Aprile 2018, 12:37
Il nostro sembra essere un Paese allo sbando e questa volta non possiamo cavarcela ricorrendo ad uno dei più citati e fulminanti aforismi di Ennio Flaiano (“La situazione politica in Italia è grave ma non è seria”), perché la situazione sotto i nostri occhi appare oltre che grave, seria su fronti diversi.

La libertà di stampa, uno degli irrinunciabili presidi di ogni società democratica, è quotidianamente sotto attacco. I giornalisti, sempre meno tutelati e senza i quali la libera informazione sarebbe una pure finzione, - non parliamo di qualcuno che ritiene di costruire notiziari ricorrendo a insulti e getti di fango - vengono aggrediti se fanno qualche domanda scomoda sui vitalizi o altro, minacciati di morte dalla criminalità organizzata se con un’inchiesta rendono pubblici traffici sporchi e collusioni mafiose, denunciati all’autorità giudiziaria e condannati per un presunto reato di opinione, intimiditi con richieste risarcitorie milionarie da chi non accetta elementi di verità, impoveriti e precarizzati da una lunga crisi dell’editoria, che sta devastando il mondo della carta stampata, alla quale nessuna risposta concreta è stata data sinora. Come se il lavoro dei giornalisti, necessario a garantire un’informazione libera e di qualità, fosse un optional o addirittura un fardello di cui liberarsi per abbattere i costi di produzione delle notizie - e sarebbe il dominio delle fake news - e anestetizzare il controllo dell’opinione pubblica sul Palazzo, le sue scelte e i suoi affari.

Ci sono forze che non tollerano un’informazione trasparente e non condizionata e per questo hanno seppellito negli angoli più oscuri della loro memoria il senso profondo di una lezione di civismo e di sfida contro i prepotenti contenuto in una delle battute più note della cinematografia di tutti i tempi “E’ la stampa bellezza” (Humphrey Bogart in “L’ultima minaccia”, 1952). È quella stessa stampa che oggi soffre nella quasi totale indifferenza.

Non è solo la crisi della stampa a indicare lo stato di malessere della società italiana. C’è un generale e progressivo scadimento del senso civico e dei valori condivisi che attraversa tutte le generazioni, ma sui giovani, che dovrebbero rappresentare l’assicurazione sul futuro del Paese, finisce con l’avere un impatto devastante. I ripetuti episodi di bullismo nella scuola contro gli insegnanti testimoniano la realtà di una crisi formativa e culturale che solleva interrogativi e preoccupazioni. Quella che doveva essere la buona scuola si mette in mostra come la cattiva scuola, priva di un progetto educativo credibile - in quanto incisivo - e autorevole - in quanto non negoziabile nei suoi contenuti di qualità. La più importante e costosa Agenzia formativa del Paese non può trasformarsi in un caravanserraglio dove tutto è consentito, fuorché educare, insegnare, studiare possibilmente sino alla laurea (l’Italia è fanalino di coda nella Ue per numero di laureati, seguita solo dalla Romania), in ultima analisi preparare i nuovi cittadini.

La lesione dei presìdi democratici e la perdita di senso civico sono l’altra faccia della medaglia della crisi economica e sociale che ha nel Mezzogiorno il suo punto di maggiore sofferenza. L’Italia si muove meno di tutti gli altri Paesi europei e la Spagna nel 2017 ha registrato un Pil pro-capite superiore al nostro (38.286 dollari contro 38.140). Non è solo una differenza di pochi dollari, preoccupa soprattutto la tendenza: nel 2022 la Spagna sarà il 7% più ricca rispetto all’Italia che nel 2008 era più ricca del 10% (dati Fmi).

In generale, tutti gli indicatori economici e sociali su un asse temporale medio-lungo confermano il passo lento e incerto del Paese sul terreno sulla crescita, la mancanza di lavoro stabile e distribuito sul territorio nazionale, l’insostenibile tasso di disoccupazione giovanile, il dilatarsi delle fasce di povertà, l’aumento del gap tra Nord e Sud anche in campo sanitario (nelle regioni meridionali c’è meno prevenzione e si muore di più per tumori e malattie croniche, secondo l’Osservatorio nazionale Sanità).

L’Italia cresce meno di tutti gli altri Paesi europei, ma ora deve anche fare i conti con l’instabilità politica dopo le elezioni del 4 marzo che non hanno assicurato a nessun partito o coalizione i consensi necessari a poter governare in solitudine. Ci vorrebbe buonsenso e volontà di dialogo per sbrogliare la matassa, ma non c’è né l’uno né l’altra.

Settant’anni anni fa, Alcide De Gasperi, che il 18 aprile aveva conquistato la maggioranza assoluta, scelse di varare un governo di coalizione con le forze laiche per allargare l’area di consenso e rafforzare l’opera di ricostruzione dopo la disfatta della guerra. Ma era De Gasperi, politico colto, lungimirante, capace di comprendere la necessità e l’utilità di tenere quanto più possibile coeso il Paese in un difficile passaggio della sua storia. E sempre durante la Prima Repubblica quando si imponevano nuovi equilibri politici, la Dc, partito di maggioranza relativa, non esitava a lasciare la guida di Palazzo Chigi al repubblicano Giovanni Spadolini o al socialista Bettino Craxi pur di assicurare la necessaria governabilità.

Oggi, nonostante il peso di difficoltà incombenti, sembrano essere stati catapultati sul palcoscenico della politica nazionale apparenti dilettanti allo sbaraglio che, senza aver ricevuto nessuna definitiva investitura popolare, dettano condizioni a destra e a manca, si auto-assegnano leadership, incarichi e posti di comando, propongono programmi e alleanze alternativi e aggiustati all’occorrenza, come se i rapporti tra forze politiche si potessero ridurre a un banale, ma pericoloso per le Istituzioni, gioco di società dove è possibile fare tutto e il contrario di tutto, con chiunque capiti per strada.

Spunta un protagonismo, infarcito di prepotenza verbale e comportamentale, che solleva dubbi e interrogativi sui reali disegni di forze politiche - nel caso dei Cinque Stelle emerge lampante l’inaffidabilità di un movimento ostaggio di regole interne poco trasparenti - che hanno sì ottenuto copiosi consensi, ma che non danno alcuna garanzia sulla capacità di governare un Paese secondo contenuti e regole saldamente ancorati ai valori delle democrazie occidentali.

Ora il pallino è nelle mani salde del presidente della Repubblica, consapevole dei gravosi problemi che il Paese è chiamato a fronteggiare. D’altra parte non si può non rilevare come l’attuale marginalità di Pd e Forza Italia - conseguenza del voto punitivo nei loro confronti, circostanza che dovrebbe obbligare i due partiti ad un profondo e celere cambiamento - rende meno ricco il ventaglio delle possibili soluzioni che Mattarella può mettere in campo. Ma, allo stesso tempo, è problematico pensare che un governo senza l’apporto delle forze politiche più ancorate all’Europa e al tradizionale sistema di alleanze internazionali possa essere una risposta utile al Paese.

Certo, tocca sempre ai cittadini-elettori dire l’ultima parola, ma serve mettere in guardia contro scelte dettate da risentimenti o da adesione acritica a ricette salvifiche.

Indro Montanelli ebbe a scrivere: “Gli italiani non si dividono in furbi e fessi, sono allo stesso tempo tutti furbi e fessi”. C’è da sperare che il grande giornalista abbia voluto esagerare, per sferzarci e farci prendere coscienza delle nostre debolezze, e che gli italiani nei momento difficili, com’è questo che viviamo, sappiano essere sino in fondo limpidi e intelligenti, preferendo l’interesse comune all’accattonaggio egoistico. Sarebbe un radicale cambio di passo e il miglior esempio da trasmettere a quei giovani, alcuni inquieti e a volte violenti, vogliosi di mettersi in gioco per il loro bene e per il futuro dell’intera società.
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