A dispetto di una pandemia epocale e della crisi – altrettanto epocale – del surriscaldamento del pianeta, il teatrino politico italiano si appresta a mettere in scena il medesimo copione di venti e passa anni fa. Con il campo – più o meno largo – del centro-sinistra incapace di trovare un proprio collante programmatico, e pronto a rifugiarsi in una bandiera – o alibi – ideologica. Un quarto di secolo fa, fu l’antiberlusconismo. Oggi, sarebbe l’antisovranismo.
Ripetendo lo stesso errore, per le medesime ragioni. L’errore - tante volte denunciato – è di trovarsi a giocare di rimessa. Di muoversi non per un obiettivo, ma contro un bersaglio. Ieri era il Cavaliere. Per mille e una ragioni, molte condivisibili alcune alquanto risibili. Ma con la stessa conseguenza: che la narrazione del centrosinistra, invece di avere vita propria, è stata elaborata – cucita – sulle mosse dell’avversario. Sappiamo come è andata a finire. Invece di una contrapposizione ideale, c’è stata una polarizzazione personale. E, nel momento in cui la centralità e la forza di Berlusconi sono venute meno, la sinistra si è sfarinata. Invece della vittoria trionfale che tanti avevano preconizzato, abbiamo avuto la disfatta elettorale. Con i Cinquestelle e Salvini che hanno riempito il vuoto all’insegna della protesta populista.
Le ragioni per cui si è arrivati a questa impasse, anche queste si conoscono bene. E si stanno riaffacciando puntuali – e puntute – in questi mesi. Consistono nella incapacità di conciliare le due anime del centrosinistra: massimalista e riformista. Una impasse che si riesce a risolvere solo mettendosi a parlare d’altro. Ieri il passpartout è stato l’antiberlusconismo. Oggi diventa l’antisovranismo. Intendiamoci. Non che il tema non sia importante, e, sotto molti aspetti, dirimente. Ma la funzione principale di questa etichetta non è quella di aiutarci a capire cosa ciascuno degli antisovranisti vorrebbe concretamente fare. Al contrario. Tutt’al più ci dice qualcosa – di generico – su cosa vorrebbero fare gli avversari. Lasciando, invece, imprecisati i problemi che dovrebbero essere sciolti per capire dove il centrosinistra vuole realmente andare. E se è in grado di andarci unito.
Che il collante dell’«anti» sia fragile, lo vedono – e lo capiscono – tutti. E la prova è che regge fino a quando la corda non viene tirata troppo. Il primo a cercare di sciogliere questo nodo gordiano è stato Renzi. Provocando un terremoto all’interno del proprio schieramento, e la sua implosione. Meno di cinque anni dopo, ci riprova. Cambiando personaggi e interpreti, formule e sceneggiatura. Ma puntando nella stessa direzione. La ricerca – e la costituzione – di un «centro». Un’area moderata che sfugga alla logica degli opposti estremismi, e diventi il traino – e il perno - di un nuovo assetto del sistema politico. Rispetto alla debacle precedente ci sono, però, due novità.
La prima è che, cinque anni fa, Renzi se l’è giocata tutta in proprio. Ha fatto tutto da sé. Da solo si è rifatto il partito, e da solo se lo è disintegrato. Oggi, invece, si sta muovendo su uno scacchiere che si è ritrovato, e che ruota intorno a un altro leader. Certo, ha dato una mano a farlo nascere. Ma oggi è al di sopra della sua testa e delle sue risorse politiche. Proprio questo, però, potrebbe avvantaggiarlo. Il riformismo che Renzi ha cercato vanamente di perseguire, è stato impersonato – con ben maggiore forza e autorevolezza - da Draghi. Certo, con importanti varianti. Ma pochi come Renzi potrebbero, nel parlamento italiano, sottoscrivere la forma e la sostanza della linea scelta dal Premier.
Ovviamente, in condizioni normali, il leader di Italia viva non saprebbe come utilizzare questa assonanza simbolica.