Saranno i ragazzi a salvare libri e letteratura. In ricordo di Philip Roth

Philip Roth
Philip Roth
di Antonio ERRICO
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Domenica 27 Maggio 2018, 18:59 - Ultimo aggiornamento: 29 Maggio, 17:42
Qualche giorno fa è morto Philip Roth. Una volta aveva detto: «Alla letteratura ho dedicato tutta la mia vita. Alla fine ho escluso quasi tutto il resto». Ha scritto capolavori ma il Nobel non gliel’hanno dato. L’avrebbe meritato, più di qualche altro.  Intellettuale lucidissimo, osservatore dallo sguardo che perforava la superficie delle cose, fino ad arrivare ai moventi dei fenomeni, delle storie.

Aveva 85 anni. A 77 aveva smesso di scrivere romanzi. Pensava di aver detto tutto quello che con quella forma di scrittura poteva dire. Di meglio non avrebbe potuto fare, pensava. Ma nella narrativa ci aveva messo tutto se stesso. Ricordava quello che aveva detto il pugile Joe Luis, poco prima di morire: “Ho fatto del mio meglio con i mezzi che avevo a disposizione”.

Roth aveva smesso di scrivere romanzi nel modo in cui smettono i grandi campioni. Pensava che fosse finita la sua narrativa, ma non la narrativa. Invece presagiva la fine della lettura. I lettori diminuiranno sempre di più, diceva, fino a quando non diventeranno una setta non più numerosa di quella di chi oggi legge poesia latina per puro svago. Gli scrittori continueranno a scrivere e i lettori diminuiranno, costantemente e gradualmente divorati dallo schermo: prima quello cinematografico, poi quello televisivo, poi lo schermo più invasivo di tutti, quello elettronico nelle sue innumerevoli e allettanti incarnazioni. La magia dello schermo ha soffocato il fascino che la narrativa esercitava sui bambini e sugli adulti. Era convinto di questo, Philip Roth.

E’ da molti anni, ormai, che giorno dopo giorno accade esattamente quello che diceva. L’immagine non ha cancellato la scrittura ma ha logorato il suo sistema nervoso. Ne ha ridotto il suo spessore semantico, riducendolo ad un filamento, finalizzandolo alla funzionalità essenziale. Inevitabilmente è toccata la stessa sorte alla lettura. Si legge soltanto quello che si ritiene che serva in quel momento, per quella ragione. La lettura e la scrittura come dimensione mentale non esistono più, e non si può lasciarsi ingannare dalle folle che si accalcano nelle kermesse. Le folle passano il tempo. Nient’altro. Se uno vuole rendersi conto di quanto concretamente e veramente i libri attraggano ancora qualcuno, deve dare uno sguardo nelle librerie di una città un sabato sera.

Ma no, per entrare entrano, come entrano in tutti gli altri negozi lungo il marciapiede, mi diceva un libraio tempo fa. Entrano, rovistano qua e là, prendono i libri, poi non si ricordano più da dove li hanno presi e li lasciano dove capita. Entrano ma non comprano niente. Meno male che ci sono i ragazzi. Soltanto loro comprano qualche libro, ancora.

Forse Philip Roth aveva una ragione limitata all’esistente, alla situazione com’è stata e com’è da più o meno quarant’anni a questa parte. Forse il futuro potrebbe essere diverso: in meglio. Forse i bambini e i ragazzini salveranno i libri. Li salveranno i nativi digitali, perché la competenza connaturata consentirà loro di distinguere, di non farsi abbagliare dalle fosforescenze degli schermi. Capiranno che l’immagine è superficiale e la parola profonda, che l’immagine appare rapidamente sullo schermo e rapidamente scompare mentre la parola s’insinua dentro, rimane marcata nella memoria, si stratifica e poi riemerge carica di tutti i significati che l’esperienza le ha potuto dare.

Saranno i bambini, i ragazzi, a salvare la narrativa. Quando si accorgeranno – perché si accorgeranno- che non si può soltanto galleggiare in una bolla variopinta di immagini virtuali, quando la loro esistenza sarà ricolma di figurazioni deformate, avvertiranno il bisogno di un racconto che consenta loro di confrontarsi con le rappresentazioni dell’esistenza.

E’ difficile pensare che questa civiltà possa veramente schiodare i punti fermi della storia. Non è mai esistito un tempo senza racconto. Lo diceva Roland Barthes: il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconto.

Certo, ci sono tempi in cui l’incidenza della narrativa nelle forme e nelle espressioni del sociale è più forte, e tempi in cui lo è di meno. Probabilmente dipende proprio dalla relazione che si stabilisce con le condizioni di superficialità e profondità. Sono in molti a sostenere che noi si vive in tempi di superficialità. Ma ad un certo punto, la superficialità quantomeno annoia. Ad un certo punto si ha voglia, se non urgenza, di capire di più, di ricomporre il tessuto sfilacciato delle visioni che abbiamo del mondo e di noi stessi. E’ a quel punto che si comincia a cercare una dimensione di unitarietà, di coerenza, forse anche di armonia nelle storie dell’esistenza pur nella consapevolezza della inevitabile disarmonia che le storie dell’esistenza si portano dentro.

Probabilmente accadrà che ai bambini, ai ragazzi, la superficialità comincerà a venire a noia. Accadrà che si accorgeranno che non basta guardarsi intorno, che è necessario guardarsi dentro. Si renderanno conto della differenza che passa fra quello che resta e quello che scompare senza lasciare traccia, tra il vuoto e il pieno, l’apparenza e la sostanza, tra i concetti che si aggregano e la disgregazione di essi, tra la cornice senza dipinto ed un dipinto senza la cornice. Allora cercheranno i libri di narrativa. Sono quelli i libri che traducono il senso dei destini, che, attraverso la finzione, si fanno specchio della realtà e dell’immaginario, che simulano l’esperienza del probabile, dell’improbabile, del possibile, dell’impossibile, del vero, del verosimile, del credibile, dell’incredibile, elaborandone modelli di riferimento. Sono quelli i libri che si fanno espressione di un pensiero lungo, che va oltre l’immediato, l’occasionale. Quando si renderanno conto che la bolla variopinta sta soffocando il loro pensiero lungo, quello che va oltre, cercheranno i libri di narrativa. Allora non avrà ragione Philip Roth. Almeno si spera.

 
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