Quel prof “bullizzato” è il fallimento della nostra eredità

Quel prof “bullizzato” è il fallimento della nostra eredità
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 22 Aprile 2018, 19:32 - Ultimo aggiornamento: 25 Aprile, 17:56
Mai come stavolta, nei commenti e nelle reazioni, il ricorso agli aggettivi è stato ampio e dello stesso tenore. Raccapricciante. Inquietante. Vergognoso. Aberrante. Sconcertante. Tutti giusti per definire quel video che mostra lo studente “bullizzare” l’inerme e sconsolato professore dietro la cattedra in un Istituto tecnico di Lucca. Aggettivi che sarebbero potuti già essere utilizzati per i non pochi fatti di cronaca che ci ha consegnato il mondo della scuola negli ultimi anni: docenti picchiati da genitori per aver rimproverato il loro figlio, insegnanti aggrediti o addirittura accoltellati da studenti per aver messo una nota negativa sul registro, professori sbeffeggiati e e filmati dagli alunni, atti di violenza fisica e psichica tra i ragazzi in classe e fuori. Ma anche insegnanti che molestano le ragazze, che chiedono sesso o soldi in cambio di voti positivi o di esami superati.

Che lo stato di salute dell’istituzione scolastica sia da “codice rosso” dopo le troppe mancate, confuse e tormentate riforme è un dato di fatto, nonostante l’impegno e la bravura di molti insegnanti. E che la nostra società pensi poco ai giovani, non investa sui giovani e creda sempre di meno ai giovani è altrettanto evidente. Ci siamo tutti scandalizzati di fronte a quel video. Ma chi si è scandalizzato nella recente campagna elettorale quando nessuno - proprio nessuno - dei candidati al governo del Paese ha parlato di scuola, università, formazione, educazione, futuro dei giovani?

Chi si è scandalizzato quando i due probabili vincitori propugnavano l’introduzione della flat tax (al 15%), il reddito di cittadinanza per tutti, l’abolizione della legge Fornero, la necessità di sforare il deficit annuo del 3% aumentando così il colossale il debito pubblico che abbiamo accumulato, scaricando gli ingenti costi ancora una volta sulle già zavorrate generazioni future anziché fare investimenti pubblici per loro, anche per risarcirle di ciò che noi adulti abbiamo loro rubato? E ancora: chi si è scandalizzato quando la ministra dell’Istruzione ancora in carica, qualche mese fa, istituiva una commissione di saggi per valutare l’uso del telefonino in classe, mentre in tutte le scuole italiane - il video di Lucca è solo uno dei tanti girati in aula - il telefonino non solo è stato largamente introdotto, ma per tutti altri usi? E chi si è scandalizzato quando nell’orgia del pensiero unico liberista si è pensato alla scuola (soprattutto quella pubblica, destinata naturalmente ai figli dei meno ricchi) come semplice strumento di preparazione al lavoro, e non come la prima e insostituibile palestra di educazione e di accesso alle conoscenze e alla cultura? E chi si è scandalizzato, quando di fronte alla corsa sfrenata e illimitata dei diritti e all’eclissi dei doveri e dei limiti, abbiamo appreso che le promozioni in ogni ordine e grado sfiorano ormai il 100& e che per cattiva condotta nessuno viene mai bocciato?

In quel video ci sono tutte le responsabilità di “noi” adulti e della società che tutti noi, chi attivamente e chi passivamente, abbiamo costruito. E le responsabilità non riguardano i ruoli definiti che svolgiamo singolarmente nella società. Focalizzare l’attenzione solo sulla scuola è fuorviante. Non siamo di fronte a un processo di delegittimazione dei soli insegnanti. E non si tratta di colpevolizzare i singoli genitori che non riescono più a essere dei bravi educatori. Chi limita l’attenzione alla sola rottura del patto educativo tra scuola e famiglia e, dunque, tra professori e studenti, rischia di fermarsi alla superficie del degrado civile e morale che emerge da quel video. Ciò che ci consegna oggi la scuola, in quanto uno degli ultimi luoghi reali e non virtuali dove si forma anche forzatamente una comunità, è nient’altro che lo specchio dei nostri tempi ed è il risultato di una cattiva semina fatta negli ultimi decenni, di cui stiamo raccogliendo i frutti. Perché, è sempre bene ricordarlo, i giovani di oggi sono anche ciò che noi abbiamo permesso, voluto, assecondato e condiviso (spesso passivamente).

Negli ultimi quarant’anni abbiamo vissuto, non solo in Italia, due grandi “rotture culturali” che hanno moltiplicato i luoghi di educazione, formazione e informazione. Due “rotture” che non solo hanno reso sempre più marginale il ruolo della scuola e delle famiglie, rispetto alla centralità dei decenni precedenti, ma hanno stravolto anche l’egemonia culturale dentro la società. La prima rottura, dalla fine degli anni ‘70 agli inizi del nuovo millennio, è avvenuta con il dilagare della televisione commerciale. A parte l’anomalia tutta italiana della proprietà delle televisioni private e la commistione con la politica, quella fase è coincisa con l’affermazione nel mondo occidentale del pensiero unico liberista che, nel nostro Paese, si è inverato attraverso l’aggressione sistematica e la demolizione del vecchio sistema di valori. Il successo, la ricerca dei soldi, l’ostentazione della ricchezza, il tutto e subito, la vita ad effetti stupefacenti, l’esaltazione dei consumi e dei beni materiali, il cinismo, l’arrivo al traguardo con ogni mezzo anche se truccato, la mitizzazione della “vita da bere”. Moralismo? Non diciamo sciocchezze. Questa è storia. È la storia dell’odio contro tutto ciò che sa di Stato, di regole, di patto, di Costituzione. È la storia di chi pensa che lo Stato moderno e costituzionale sia stato un incidente di percorso della storia, che ha ridotto le libertà individuali e ingabbiato gli spiriti animali. È la storia della demonizzazione delle tasse, del welfare, della sanità pubblica, della scuola e dell’università. È la storia delle scorciatoie per il successo, dell’esaltazione del talento senza studio, senza retroterra, senza esperienza. Anche al costo di strapazzare la lealtà e le regole.

La scuola poteva rimanere estranea questo processo, a questo cambio di egemonia culturale? Sicuramente no. C’è un episodio significativo da ricordare. Un anno e mezzo fa, quando era ancora presidente nazionale dell’Anm, Piercamillo Davigo, nel corso di un incontro con gli studenti a Lecce, lanciò una severa strigliata alle scuole italiane, colpevoli di non educare i nostri giovani alla lealtà, come invece fanno quelle americane, ma alla slealtà. Pur trovando spesso non condivisibili le posizioni di Davigo, in questo caso aveva completamente ragione: si comincia dai banchi di scuola a diventare cittadini sleali, a inseguire le scorciatoie, a truccare le sfide e gli esami, a violare le regole per raggiungere un traguardo. A elevare, insomma, l’imbroglio come virtù anziché come un disvalore. Si comincia lì - spesso con la complicità, se non addirittura con la spinta degli stessi genitori - a diventare allergici alle regole, a esaltare la furbizia, a propendere per il raggiro degli insegnanti e degli stessi compagni di classe, perfino a ostentare fierezza e orgoglio se si riesce ad aggirare con astuzia gli ostacoli. Il sistema formativo italiano, fin dai primi anni di frequentazione, non serve a formare cittadini leali. E non bastano certo le tante lezioni sulla legalità, i mille progetti Pon volti all’educazione civica, spesso più utili alla visibilità dei relatori (presentatori di propri libri) e degli insegnanti che a una vera educazione civica degli studenti. E di questo abbiamo le colpe noi, non i bambini, non i ragazzi e gli adolescenti costretti a crescere in una società ereditata da noi. I “cattivi” non solo loro, i cattivi maestri siamo noi. Noi che stiamo lasciando ai giovani una società “devastata”, un “deserto” di punti di riferimento e di valori forti, dove le prospettive e le speranze nel futuro sono sepolte dalle macerie che abbiamo provocato.

La seconda “rottura culturale”, una sorta di “involuzione” della specie, c’è stata con il dilagare della rete e della cultura (?) venuta sedimentandosi con la rete. Giorno dopo giorno, con una perfetta manipolazione dietro le quinte, ci siamo trovati di fronte a un sempre più rabbioso disprezzo verso le competenze, le conoscenze, la scienza, lo studio, gli approfondimenti, l’esperienza: in una sola parola, verso l’intellettualità. C’è chi ha “scientificamente” perseguito e diffuso l’illusione che la rete potesse rendere completamente inutili e superati gli esperti, gli studiosi, gli scienziati e, dunque, le professionalità. Anche nei saperi e nella formazione. Si è creato il mito della falsa “orizzontalità” democratica che annulla e dileggia la “verticalità” dei saperi e la “settorialità” delle competenze. Come se la rete fornisse tutto il materiale informativo necessario, garantendo una struttura formativa enciclopedica a tutti. E come se, sulla base del molto ambiguo principio “uno vale uno”, chiunque potesse occuparsi di qualsiasi cosa, interloquire su qualsiasi argomento, affrontare e risolvere qualsiasi problema, governare qualsiasi istituzione. Se si riflette bene, da qui alla teorizzazione della quasi inutilità della scuola e dei professori il passo è molto breve. E noi siamo ancora a disquisire sul perduto principio di autorità?

La distinzione dei ruoli è, nei fatti, già resa superflua, e con essa la delegittimazione degli insegnanti, da parte degli studenti ma anche dei genitori. Non riconoscere chi ha studiato e ne sa di più annulla la differenza tra uno scienziato e uno stregone, tra uno specialista e un ciarlatano, tra un discente e un docente. Crediamo davvero che tutto ciò non abbia conseguenze nel modo di pensare e di vivere di un ragazzo? E del suo stare in classe con un professore dietro la cattedra? Pensiamo davvero che ridicolizzare anche pubblicamente le competenze non abbia effetti devastanti nella formazione dei giovani? Pensiamo davvero che sia senza effetti sorvolare sui congiuntivi, sulle sgrammaticature, sulle gravi lacune in storia e geografia di aspiranti candidati al governo di città, Regioni e Paese? Non scherziamo. Giorno dopo giorno, gli effetti diventano devastanti e mettono in discussione ruoli, funzioni, le fondamenta stessa della nostra società. Senza dimenticare l’altro, devastante vulnus prodotto dalla frequentazione ossessiva della rete: lo svuotamento dei luoghi d’incontro reali, sostituiti da quelli virtuali, con la riduzione delle persone al più individualistico isolamento. La diseducazione a stare insieme significa non riconoscere l’altro da te, non solo negli incontri e nelle relazioni personali, ma soprattutto nei ruoli e nelle funzioni assegnate dalla società. È la malattia dei nostri tempi, provocata da noi, non dai giovani. Si chiama separatezza, non comunicazione fisica con gli altri, non essere-in-comune, assenza di relazione autentica. E, quindi, non credere nella costruzione di percorsi e progetti comuni. Che cos’è la scuola se non, innanzitutto, un percorso e un progetto comuni?

Ecco. Se mettiamo insieme tutti i (dis)valori disseminati dalle due “rotture culturali” vissute negli ultimi quarant’anni, quel video di Lucca - così come i tanti altri fenomeni di bullismo che ci consegnano ogni giorno le cronache - risulta non solo raccapricciante e aberrante, ma anche annunciato e prevedibile. Quasi ineluttabile. Prendere atto di tutto ciò sarebbe già un bel passo in avanti rispetto al solo sconcerto, quasi straniante, di fronte a quel video. Il secondo passo: cominciare a ripensare e rifondare un sistema di valori autentici e reali, non virtuali, un sistema fondato su un deciso riequilibrio della diade diritti-doveri anche nel nome di grandi tensioni ideali. Nella settimana in cui Papa Francesco è venuto nel Salento a ricordare e a esaltare la “carità delle opere” di don Tonino Bello ci è stata indicata ancora una volta la strada giusta lungo cui muoverci per ritrovare il filo di pensieri forti e lunghi. Il terzo passo ci viene da una fin troppo abusata ma sempre attualissima riflessione di Gramsci: “(...)nel succedersi delle generazioni può avvenire che si abbia una generazione anziana dalle idee antiquate e una generazione giovane dalle idee infantili, che cioè manchi l’anello storico intermedio: la generazione capace di educare i giovani”. Ecco, è lì il nostro anello mancante. E la colpa non è degli insegnanti e dei genitori come “categorie”. La colpa è di tutto ciò che ci è passato davanti negli ultimi quarant’anni senza accorgercene. Riapriamo gli occhi, dunque, prima che sia troppo tardi.

 
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