La strage di braccianti immigrati in un Paese dalla memoria corta

di Dario DE RINALDIS
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Mercoledì 8 Agosto 2018, 14:33 - Ultimo aggiornamento: 9 Agosto, 19:31
«Facciamo così: dammi venti euro, ti do la collana di corallo e questo braccialetto. Non mi servono tre euro. Devo mangiare. Ho mia mamma, le mie sorelle, mia moglie e i miei figli giù in Africa. Voglio i soldi, ma prendi questa». All’una e trenta della notte c’è ancora tanta gente in giro nel centro storico di Lecce. Dicono che stiamo trasformando la città del Barocco in un enorme bistrot, che questa offerta turistica non porta da nessuna parte, che arte e cultura dovrebbero vincere la sfida contro tavolini e sgabelli. Ma provate a finire di lavorare all’una, di non avere nulla in frigo a casa e di voler mettere qualcosa tra i denti prima di andare a dormire, o meglio a lottare contro i trentacinque gradi percepiti in una notte di ordinaria estate salentina.
Che fai, dunque, quando davanti ti trovi l’uomo con le collane? Gli racconti che non hai avuto il tempo di passare dal bancomat, che è tardi e hai appena finito di lavorare e che dal pomeriggio segui in tivù la notizia dei suoi dodici compagni di avventura che hanno lasciato la pelle sull’asfalto, schiacciati dalle lamiere di un pulmino buono solo per la sfasciacarrozze. «Ma io devo mangiare e devo mandare i soldi a casa. Di andare lì a vedere i miei figli e mia moglie non se ne parla. Biglietto caro. Troppo caro. Con quei soli campiamo tre mesi».
Il tempo di aspettare il panino, con lui che poggia le collane sul tavolo, e i pensieri volano. A quell’ammasso di rottami che ha fatto una strage forse senza precedenti, alle strade dei poveri che fanno la spola tra un accampamento e un campo di pomodori e all’autostrada dei ricchi in viaggio verso lavori ben retribuiti e vacanze da sogno, distrutta da quell’esplosione che ha terrorizzato l’intero Paese. Lì, a Bologna, un solo morto, tanti danni alla comunità e sei colonne nelle prime pagine dei giornali nazionali. Qui, in Puglia, dodici morti, qualche timido titolo di pancia sulle prime pagine nazionali e in fondo nessun danno alla comunità. Domani i dodici saranno rimpiazzati da altri dodici che butteranno il sangue nei campi, sotto il sole d’agosto, come hanno fatto i primi dodici. E se saranno più fortunati troveranno un caporale più in gamba alla guida che li porterà sani e salvi ai loro tuguri.
I pensieri volano. Primi anni Settanta, estate a Santa Maria al Bagno. Per noi ragazzini l’attrattiva di quel settembre fu un giovane di colore finito lì chissà come e venuto da chissà dove. Aveva un fisico statuario e faceva dei tuffi strabilianti. A dire il vero era l’attrattiva di tutti. «Ehi!, il negro è al Pizzo dell’Aspide che fa il bagno - diceva la vedetta di turno - e tutti a raggiungere lo scoglio. Adulti e ragazzi. In bici, a piedi, in Vespa o in auto. Una vera processione «per vedere il negro». Poi vennero i marocchini, i “vu cumprà” che giravano tra le strade assolate e deserte del pomeriggio con i loro carretti pieni di tappeti e lampadari. Poi ancora il secondo straniero per le squadre di serie A e poi la marea sempre più grande e sempre più inarrestabile di disperati in cerca di pace, cibo e lavoro.
Viviamo tempi difficili. La povertà crescente, il lavoro che svanisce, i salari che non aumentano, l’insicurezza che dilaga, il rancore, la sempre più abissale distanza dalla politica, la deriva populista e la spinta sempre più forte verso l’intolleranza stanno trasformando questo Paese. Eravamo noi a partire con le valigie di cartone, eravamo noi a far ricca la Torino della Fiat o la Svizzera e la Germania delle grandi fabbriche. Eravamo noi a inseguire il sogno americano sui piroscafi che attraversavano l’oceano. Stiamo dimenticando. E stiamo dimenticando che quei neri a cui deleghiamo i lavori più umili e peggio pagati, quegli indiani che ci inseguono por vederci una rosa o quei senegalesi che ci propongono impossibili collane di corallo altro non sono che noi stessi, quello che siamo stati. I nostri padri o i nostri nonni, le nostre madri o le nostre nonne quando davanti alla Statua della Libertà aspettavano in fila per due la disinfestazione. O quando in Germania o in Svizzera passavano malvestiti e col ventre gonfio d’aria davanti alle vetrine dei bar e dei ristoranti dove i grassi padroni delle fabbriche e delle miniere si abbuffavano senza degnarli di uno sguardo.
E se ci troviamo davanti a un uomo o una donna scappati da una guerra, non riusciamo più a pensare che siamo stati anche noi in quelle condizioni. Quando in questo Paese si cercava di sfuggire ai bombardamenti, alla fame e alla indescrivibile crudeltà dei nemici. Il rancore, l’odio alimentato dai manovratori del pensiero intollerante, ci stanno azzerando la memoria. Non riusciamo a immaginare - solo immaginare per carità - cosa vuol dire mettere piede su un barcone al buio e sfidare la morte sempre in agguato in un mare nero, sconosciuto e ostile. Cosa vuol dire consolare il pianto di un bimbo terrorizzato, infreddolito e affamato avvolto in una copertina di fortuna, su una nave piena di gente disperata e sconosciuta. Non sappiamo, non conosciamo, non immaginiamo. Ora l’obiettivo è innalzare steccati, chiudere i porti, costruire barriere, fermare le navi e i barconi. “Aiutarli a casa”, come dice qualcuno che evidentemente di “quella casa” non ha una benché minima percezione. «Ma come...piovono bombe, i soldati sparano, uccidono, violentano, deportano, catturano. Ma come...tra le macerie non c’è nulla da mangiare, le scuole non esistono più e nelle strade non si può camminare. Ma come..., ci lasciate in questo inferno e mi date quattro soldi per restare? Certo che vorrei restare a “casa mia”, ma il fatto è che “casa mia” non esiste più. E scusa se è poco».
Che strano Paese che siamo. Le lacrime versate dopo quel monologo di Pierfrancesco Favino a Sanremo avrebbero riempito una decina di invasi di montagna, ma è stato un fuoco di paglia. Sì, ci commuoviamo, ma poi passa presto. E il rancore, l’odio, l’intolleranza riprendono il sopravvento. Ora si tratta di distribuire faccine con la lacrima per un paio di giorni, di fermarci e vedere le solite bare che passeranno tra la solita folla. E poi si tornerà alla vita “normale”. È ancora agosto. E poi sulle spiagge ora si sta bene, possiamo riposare in pace perché i vigili di Salvini veglieranno su di noi tenendo alla larga quei fastidiosi neri addobbati come alberi di Natale che vogliono vendere collane, pareo, cappelli e teli da mare proprio a noi che queste cose le compriamo al centro commerciale dove tutto luccica e di nero c’è solo il colore della pelle del tizio che ti aspetta fuori per recuperare l’euro inserito nel carrello della spesa.
Certo, davanti a dodici vite spezzate e davanti a chissà quanti bambini rimasti orfani e quante mogli rimaste vedove ci sarebbe da riflettere. Da domandarsi dove stiamo andando e soprattutto dove vogliamo arrivare. Potremmo pensare, riflettendo, che in fondo noi di questa gente abbiamo bisogno tanto quanto loro hanno bisogno di noi. Che nei nostri paesi sempre più vecchi e deserti loro potrebbero trovare pace, lavoro e famiglia. Potremmo addirittura pensare che tra quei bambini accucciati sul ponte di una nave che li ha ripescati strappandoli alla morte e al banchetto finale dei pesci forse c’è un futuro presidente o premier che sarà in grado di accendere la luce della speranza in questo strano Paese. Potremmo. Ma di tempo per pensare, per riflettere, non ne abbiamo. L’estate è breve. C’è la notte delle stelle che incombe. La grigliata di Ferragosto da organizzare, i gruppi di Whatsapp da curare, l’abbonamento da fare per vedere i gol di Ronaldo, lo zaino dei Pokemon da acquistare per il pupo e la palestra da contattare perché dobbiamo toglierci da dosso i chili conquistati quest’estate e tornare in forma per Natale. Per ingozzarci di panettone. Di quello buono, magari impastato da due mani nere. Ma di questo non ci importa nulla.
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