I torti e le ragioni dei lodatori del tempo passato

di Antonio ERRICO
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Domenica 2 Settembre 2018, 19:45
Erano in tre seduti sulla panchina di una piazza di paese solitaria, sotto una luna bianca che ritagliava le forme da strabilio di una facciata barocca. Avevano quell’età che avanza rapidamente, quella in cui i ricordi lontani si fanno sempre più vicini, quell’età in cui si prova disagio e insopportazione per le cose che sono o che sembrano nuove. Erano in tre, e uno diceva che avanti così non si può più andare, che uno sfascio così non si è visto mai, e uno diceva che bisogna mettere un freno, che per tutta questa baraonda un rimedio si deve trovare. L’altro ascoltava e non parlava. Faceva di sì con la testa e non parlava.

Se avessero ragione o se avessero torto non si può dire. Se si vuole sapere, occorre aspettare. Ma si deve mettere in conto che se avessero torto o ragione può anche darsi che non si sappia mai. I lodatori del tempo passato ci sono sempre stati, ci sono, ci saranno. Qualcuno li chiama nostalgici. Qualcuno li chiama sapienti. Quelli che dicono: era meglio prima. Per qualunque cosa: era meglio prima. Quelli che dicono: una volta si poteva dormire con le porte aperte, ma non è vero, oppure era vero semplicemente perché non c’era proprio niente da rubare. Quelli che dicono: una volta c’era rispetto, una volta c’era educazione. Invece era semplicemente un altro rispetto, semplicemente un’altra educazione. Le persone cambiano i tempi e i tempi cambiano le persone. Forse non è mai meglio né peggio. Forse è sempre tutto soltanto diverso, oppure tutto è in fondo sempre uguale.

Quelli che dicono: i giovani sono maleducati, i giovani non studiano, sono fannulloni, sdraiati, mammoni, immaturi, bamboccioni. Quelli che dicono: io alla loro età scatenavo la terra. Quelli che dicono che non hanno ideali, quelli che dicono che non hanno valori, che sono un impasto di contraddizioni, che sono fatalisti, senza ambizioni, senza personalità, senza aspirazioni, che non hanno memoria, che non hanno passioni, che non si interessano di politica, di come va il mondo, che tornano a casa tardi, si svegliano a mezzogiorno. Quelli che dicono che sono apatici, indolenti, passivi, indifferenti, sfacciati, insolenti, irriverenti. Quelli che dicono e giudicano, e forse hanno torto, forse hanno ragione.

Un po’ di tempo fa, ci fu un signore che disse: “La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, si burla dell’autorità e non ha alcun rispetto degli anziani. I bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano quando un vecchio entra in una stanza, rispondono male ai genitori, in una parola: sono cattivi”. Il signore che diceva queste cose, rispondeva al nome di Socrate.

Un’altra volta, un altro signore disse: “Non c’è più alcuna speranza per l’avvenire del nostro paese se la gioventù di oggi prenderà il potere domani, poiché questa gioventù è insopportabile, senza ritegno, terribile”. Il signore si chiamava Esiodo.

Un’altra volta ancora, ci fu uno che disse: “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, i ragazzi non ascoltano più i loro genitori:la fine del mondo non può essere lontana”. Era un sacerdote dell’antico Egitto.
Ancora: “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore. I giovani sono maligni e pigri, non saranno mai come la gioventù di una volta; quelli di oggi non saranno capaci di mantenere la nostra cultura”. Si tratta di un’incisione su un vaso di argilla dell’antica Babilonia.

Queste affermazioni che ho trovato per caso mentre cercavo nella Rete le Linee guida nazionali di educazione al rispetto, fanno venire il sospetto che sia stato sempre falso o sia stato sempre vero il fatto che i giovani del passato siano migliori di quelli del presente. La storia si ripete, all’infinito. Ma forse il problema è posto in maniera sbagliata. Forse i concetti e i termini non possono essere quelli di migliore o di peggiore. Il ragionamento è abbastanza semplice o abbastanza complesso; dipende.

Allora, si cresce in una contrapposizione col Padre. Il Padre è il sistema, il Padre è la Legge. Si cresce contestando il sistema, contestando la Legge. Si cresce pensando che si possano fare cose migliori di quelle che gli altri hanno fatto, che si possano inventare mondi migliori. Per fortuna si cresce pensando così, che si possano inventare mondi migliori. Lo pensa ciascuno per conto proprio; lo pensano intere generazioni. Però dovremmo per qualche istante considerare quanto sarebbe triste se i giovani pensassero il già pensato, se non immaginassero di cambiare tutto, o di cambiare molto; quanto sarebbe ristagnante una società che non potesse contare sulla bellezza della contestazione, della protesta, dell’astratto furore.

Dunque si cresce così: nella contrapposizione con un sistema e con chi ha determinato il sistema.

Chi viene contestato ha il dovere di spiegare per quali circostanze e per quali ragioni si è fatto in quello e non in altro modo. Forse anche di dimostrare che meglio di così non si poteva fare, che qualunque fatto, qualsiasi situazione vanno letti e interpretati con i criteri della storia, che bisogna comprendere su che cosa si fondavano quei fatti e quelle situazioni, da quali condizioni partivano, quali erano gli orizzonte che avevano di fronte.
Chi viene contestato ha il diritto e il dovere di far capire che con quello che ha fatto aveva l’ambizione di migliorare quello che esisteva. Ha il dovere di dimostrare che poi il miglioramento in effetti c’è stato, che certamente si può fare di meglio, ma senza cataclismi, con cognizione di cause ed effetti.

Erano in tre, seduti sulla panchina nella piazza con la luce di luna sulla facciata della chiesa barocca. Uno diceva quello che diceva; l’altro diceva più o meno la stessa cosa; il terzo ascoltava, faceva di sì con la testa, e non parlava. Poi ad un certo punto parlò. Chiese ad uno dei due che cosa dicesse suo padre di lui. Uno alzò la testa, guardò il cielo, rispose che suo padre diceva le stesse parole.

Poi chiese all’altro che cosa dicesse suo padre di lui. L’altro ci pensò, ci ripensò, poi rispose che suo padre diceva le stesse parole. Allora restarono in silenzio, tutti e tre, a guardare la luce della luna sulla facciata della chiesa barocca.

 
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