Un eretico nell'arte, conformista in politica

Un eretico nell'arte, conformista in politica
di Mario Ajello
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Martedì 27 Novembre 2018, 08:46 - Ultimo aggiornamento: 13:39
Martin Scorsese è stato un grande ammiratore di Bernardo Bertolucci. Scorsese ha detto una volta: «Non riuscirò mai a eguagliarlo. è stato allevato nella sua famiglia con una coscienza politica fatta di libri e storia. Io non ho avuto questa fortuna».

Quello di Bertolucci è stato un corpo a corpo tra se stesso - libertario, innovativo nei linguaggi e nelle immagini, non dogmatico - e la sua cultura di riferimento: quella rocciosamente di sinistra, antifascista, di marca Pci, di cui ebbe la tessera dal 69 alla metà degli anni 80. Lui è riuscito a non abiurare ad alcuna parte della sua complessità, anche se in conflitto. Ed è durata una vita questa battaglia di Bertolucci tra anti-conformismo e conformismo e a proposito: il suo film Il Conformista è del 70 ed è una magnifica critica ai rituali dell'obbedienza politica, tutti e non solo quelli incarnati dal fascista Marcello a Clerici, interpretato da Jean-Louis Trintignant. Sotto la crosta del politicamente corretto - che lo accomunava nell'intruppamento a tanti colleghi registi, a Scola, Lizzani, Pontecorvo, Maselli, Montaldo con cui per esempio firmò il film curato da Ugo Gregoretti in onore di Berlinguer per la sua morte: Ciao Enrico - si agitava dentro di lui un continuo tentativo di scartare, di stridere, di spostarsi e di superare la vulgata dominante a cui ufficialmente aderiva. Se Pier Paolo Pasolini, di cui fu aiuto regista in Accattone e grande amico, si liberò dalle briglie del bacchettononismo Pci tramite l'omosessualità (e molto altro), Bertolucci ci ha provato attraverso il racconto della liberazione sessuale, da Ultimo tango a Parigi a The Dreamers, che è stato il suo modo di essere rivoluzionario e di uscire dai canoni. La stessa cosa l'ha fatta con le immagini, con l'estrema forza della sua estetica che non è mai stata estetismo ma liberazione. Ecco, faceva attraverso i film ciò che stentava a fare con le posizioni pubbliche, che sono quasi sempre state in linea con quel milieu intellettuale progressista romano - Moravia e dintorni - in fondo benpensante. Era con loro, e con il Pci e i suoi succedanei, ma era diverso da loro. Ha vissuto il conformismo politico, coltivando l'eresia artistica, proiettandosi in un sogno cinematografico-intellettuale in cui si mescolano Marx, Freud, Proust al culatello e il melodramma di Giuseppe Verdi, Hopper e la nouvelle vague, il rock («Se credessi in Dio, direi che è un chitarrista nero e mancino»: Jimi Hendrix!) e la fascinazione per la Cina buddhista e imperiale.

Bertolucci è quello che, banalmente, tra i soliti applausi micromeghisti, nel 2011 a Cannes ricevendo la Palma d'oro alla carriera disse: La dedico agli italiani che hanno la forza di indignarsi contro Berlusconi. Ma è anche quello, molto tempo prima, che fece scandalo anche politico per l'Ultimo tango (e soltanto Marco Pannella gli fu vicino in quel periodo) e che fu protagonista di questo episodio. Lo ha raccontato proprio lui: «Prima proiezione di Novecento, un film in cui narravo una saga familiare a partire dalla nascita del comunismo in Emilia Romagna. Eravamo nel 1976, in pieno compromesso storico e mi sembrava di dover celebrare un rito, pensavo di rendere omaggio alla storia del Pci. Paese Sera, quotidiano comunista romano, organizzò un dibattito con lo storico Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta. Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò».

Poi però il guaio. «Vedendo le successive immagini, quelle sulla Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, lo stesso Pajetta si alzò furioso e se ne andò gridando: mi rifiuto di partecipare! Giorgio Amendola disse che il film era bruttissimo. La Fgci di Walter Veltroni, invece, mi appoggiò». E però, Bertolucci era anche quello che, nei decenni successivi, appena qualcuno gli proponeva «perché non fai un film, o almeno un libro, revisionista sulla storia d'Italia?», reagiva: «Il revisionismo? Ma io non sarò mai revisionista!». Non sapeva neppure essere del tutto irregimentato. «Agli italiani - questa la sua convinzione di pochi anni fa - non si addice l'affermazione della verità storica. Ancora oggi, sulla data fondante della nostra Repubblica, il 25 aprile 1945, non siamo stati capaci di vedere i fatti con il distacco necessario».


Era affezionato al 68 ma più che altro come occasione persa di rinnovamento culturale e di costume, come una «bellissima illusione positiva». E sapeva stupire i suoi simili. «Una volta, nel 58 eravamo a Sabaudia - così ha raccontato - e ci sedemmo al caffè sotto i portici, io, mio padre e Alberto Moravia. Loro due vomitavano sull'orribile architettura fascista. Io invece ho sempre trovato meravigliosa quella e altre città del Ventennio». E quando girò Il Conformista, scegliendo di ambientare molte scene all'Eur, il quartiere progettato dal regime, fu considerato un gesto scandaloso. Ma grattare la crosta ideologica, senza mai farla saltare del tutto, è stata la sua grande arte. Capace di colpire, ma mai troppo, anche la sinistra. Come quando, nel 76, a proposito di Novecento osservò: «I due Paesi ai quali, nel mio sogno megalomaniaco era indirizzato il film, erano l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti che sono i due posti nei quali non è uscito. Per motivi assolutamente identici: troppe bandiere rosse!». Parole di un eretico ma anche di un integrato.
 
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