Alda Merini, la poetessa che il Salento non guarì

Conobbe la provincia di Lecce grazie all’amica e ammiratrice Maria Corti. Poi l’idea di una nuova vita con un medico di Taranto, Michele Pierri, la cui morte però spinse la scrittrice a tornare a Milano

Alda Merini, la poetessa che il Salento non guarì
di Gigi MONTONATO
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Venerdì 22 Marzo 2024, 04:20 - Ultimo aggiornamento: 3 Aprile, 16:45
Alda Merini (1931-2009) parlava poetando o poetava parlando; sì, insomma, per lei scrivere una poesia era come sospirare a “voce” alta. Era già poeta da ragazzina, quando ebbe i complimenti dal critico letterario Giacinto Spagnoletti. Il suo era un soffio divino, oracolare. All’inizio i poeti erano filosofi e divinatori. Essi non avevano bisogno di lime, di perfezionamenti, di trovare la parola giusta. I veri poeti gioiscono e soffrono e fanno gioire e soffrire, gli armati di lima ragionano e fanno ragionare. Chissà quanta poesia della Merini è rimasta non scritta!
Tormentata nei suoi anni giovanili da disturbi legati alla sua psicologia, da tumultuose esperienze d’amore, Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo, da penose esperienze manicomiali e genitoriali, rimasta vedova di un banale marito, visse un’esistenza drammatica. Il suo stato depressivo divenne insopportabile e il marito la fece ricoverare in manicomio. Dimessa dopo dodici lunghi anni di sofferenze ed esperienze indicibili, tornò a casa, nel tentativo di riprendere una vita normale, che per lei continuava ad essere la poesia. 
Ad un certo punto conobbe il Salento, grazie alla sua amica e ammiratrice Maria Corti, la filologa e scrittrice, che da noi era di casa, insegnava all’Università di Lecce. La Corti era autorevolmente inserita negli ambienti fatati di Palazzo Comi a Lucugnano, dove si riuniva il fior fiore della cultura salentina del tempo, Oreste Macrì, Mario Marti, Michele Pierri, Luigi Corvaglia, Vincenzo Ciardo, più tardi Donato Valli, Nicola G. De Donno e altri. Tutti “rami” dell’Albero comiano, simbolo dell’Accademia Salentina. 
Pierri era un medico di Taranto, anche lui poeta e scrittore. Maria Corti le fu pronuba. Tra la Merini e Pierri c’era un divario di trent’anni. Ma erano entrambi poeti, lei vedova con figli adulti, lui vedovo con figli adulti. In mezzo per il connubio la poesia, attrazione fatale. Il matrimonio le avrebbe garantito una certa tranquillità esistenziale e l’avrebbe fatta uscire definitivamente dalle sue sofferenze psichiche. Almeno, si sperava. La luce del Salento, la bella casa in cui abitava con affaccio sul mare, la nuova condizione con un uomo che condivideva con lei l’amore per la poesia, le procurarono per un po’ di tempo benefici effetti. Poi ebbe delle ricadute e la storia finì con la morte per vecchiaia di Pierri e il ritorno della Merini ai navigli nella sua casa di Milano. Evidentemente non erano gli agi e i bagliori esterni le cure migliori per il suo disagio interiore. Le fu riconosciuto l’assegno Bacchelli per alleviare le sue difficoltà economiche. Fortunatamente, man mano che andava avanti negli anni, trovava la pace dei sensi e con essa quella interiore. 
Negli ultimi tempi era diventata famosa e amata in tutto il Paese, una gloria nazionale, riverita e coccolata. Televisione, servizi, giornali, interviste, riedizioni delle sue poesie. Ebbe due candidature al Premio Nobel per la letteratura, nel 1996 e nel 2001. Sarebbe stato il coronamento di una vita da favola se l’avesse avuto. Per l’Italia un’altra perla nella non molto ricca collana di premiati.
Rai Uno ha voluto dedicarle un film fiction, che ha mandato in onda giovedì, 14 marzo, in prima serata, “Folle d’amore. Alda Merini”, il racconto della vita della poetessa o poeta come lei voleva essere chiamata, al maschile. Il regista ha suddiviso la sua vita in episodi, con qualche flashback, escogitando i capitoli di un racconto che la Merini faceva ad un suo giovane ammiratore e accompagnatore, filo conduttore della narrazione. Nulla da dire sulla regia di Roberto Faenza, non siamo critici cinematografici, ma conoscendo qualche vicenda della Merini giovane e avendola seguita negli ultimi anni della sua vita, ci sentiamo di osservare che forse l’attrice che la impersonava da adulta, Laura Morante, pur brava, non era la più indicata. La Merini era un donnone, forte esuberante esplosivo, compiaciuta della sua carnalità, che esibiva con fierezza, per certi aspetti un personaggio felliniano. Quella del film era una figura smunta, rinsecchita, sofferta, incapace del minimo slancio vitale. Molto meglio la Merini ragazzina, disinibita, di una innocenza sfacciata, quando era lei a proporre ai “suoi” poeti esperienze d’amore, che per lei erano tutt’uno con la poesia. 
“Folle d’amore” è un titolo ambiguo. Può significare un’iperbole per un innamoramento irresistibile o una patologia psichica. Comunque fosse, resta una grande voce poetica del ‘900 italiano, che il Salento si pregia di aver conosciuto e amato.
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