Donato Carrisi: «Così nasce un giallo mediatico»

Donato Carrisi: «Così nasce un giallo mediatico»
di Claudia PRESICCE
4 Minuti di Lettura
Lunedì 7 Dicembre 2015, 18:10 - Ultimo aggiornamento: 8 Dicembre, 10:36
La nebbia collosa in cui scompare la piccola Anna Lou è la stessa che impasta tanti casi di cronaca nera. Alcuni rimbalzano sulla giostra mediatica, si gonfiano come palloni aerostatici e volano via con un bel business che giova a tutti, tranne che alle vittime che sono solo originarie scintille utili ad un grande incendio che alla fine le dimentica.

“La ragazza nella nebbia” (Longanesi) è il nuovo thriller di Donato Carrisi , appena arrivato in libreria, che svela il meccanismo perverso di costruzione di un “caso” mediatico nella sua storia ambientata all’ombra delle Alpi. Carrisi , scrittore di Martina Franca, già Premio Bancarella, è autore di cinque bestseller internazionali tra cui “Il suggeritore” e “L’ipotesi del male”.

Cominciamo da Anna Lou, la ragazzina dispersa nella nebbia: ha una storia prima di diventare motore del circo mediatico?
«I casi di scomparsa di ragazzine di sedici anni sono tutti drammaticamente simili. Sono tutte ragazzine invisibili, che non si notano e non ti spieghi perché tocchi proprio a loro, come per un destino già scritto. Quello che colpisce è che svaniscono subito nell’immaginario del pubblico, perché sono vittime silenti, designate. Si coltiva un po’ la speranza che si ritrovino, ma dentro ci portiamo tutti la sensazione della tragedia. Non a caso si chiama circo mediatico…perché al circo si va con la segreta speranza che cada il trapezista o il leone sbrani il domatore».

Non si costruisce un caso intorno alla pietà?
«Io non ci credo alla pietà, dura al massimo lo spazio di un programma televisivo».

Perché ha deciso di raccontare la sparizione di una ragazzina che diventa un caso mediatico: per il disgusto che vede intorno o per raccontare anche qui la “normalità del male” come in altri suoi libri?
«Nessun disgusto, io faccio parte di questo circo, scrivo di fatti di cronaca, li ho commentati in tv, sono anche nel pubblico interessato. Semplicemente la nostra cultura è fatta così, e anche la nostra natura. Volevo solo raccontare il fenomeno con una sincerità che sfiora il cinismo, perché in questo libro non si salva nessuno, sono tutti ambigui».

Ma è reale in tutta questa costruzione mediatica studiata a tavolino?
«Assolutamente reale, esclusivamente».

Ma nella sua storia si indicano “regole”, sono letterarie almeno quelle? Per esempio la vittima da santificare per evitare che la gente pensi che se l’è cercata…
«Ricordiamo le foto iniziali di Sarah Scazzi? Ad un certo punto ce la mostrarono truccata, volevano sottintendere qualcosa, si cominciò a pensare che fosse scappata di casa e l’opinione pubblica stava virando verso il “se l’è cercata”. Si parlò di tanti profili su Facebook, inducendo a pensare che fosse capace di ingannare. Si è salvata solo quando lo zio Michele l’ha mostrata in fondo al pozzo, dove rischiava di rimanerci per l’eternità perché nessuno l’avrebbe mai trovata se Misseri non l’avesse fatta scoprire».

L’audience mediatica aiuta per arrivare alla soluzione?
«La maggior parte dei casi non vengono risolti, neanche quelli clamorosi: pensiamo a “via Poma”. L’opinione pubb lica aiuta solo ad avere più mezzi. Cioè, Yara ha avuto “la fortuna” di arrivare dopo tre mesi da Sarah, quando la macchina era in movimento: per giorni sul caso di Sarah non si era mosso nessuno fino alla famosa marcia organizzata dalla cugina, invece le ricerche di Yara sono iniziate subito con cani molecolari e squadre di ricerca. Poi il cadavere, in realtà, ce l’avevano a meno di un chilometro di distanza dal centro che coordinava le ricerche e l’hanno cercato per tre mesi. È evidente quanto sia tutto molto improvvisato. Anche per Sarah: è possibile che ci siano due donne in carcere per il sogno di un fioraio e un reo confesso sia a piede libero? L’opinione pubblica vuole il colpo di scena e gli inquirenti commettono tanti errori per seguirla».

Quindi la pressione mediatica inquina?
«Della giustizia non gliene frega niente alla gente, vuole il mostro e quando ha decretato che sia quello anche se viene assolto resterà il mostro per sempre, nessuno si rassegna. I media assecondano e fomentano perché è un business e gli inquirenti e tanti altri fanno carriera con i casi mediatici. Quando ci fu l’attentato alla scuola di Brindisi si parlò di mafia contro il nome Falcone Morvillo, nessuno pensò al bombarolo: pure il sindaco salì sul palco a urlare contro la mafia, ma da criminologo io sapevo bene che si trattava di un solitario con l’intento di uccidere e sinceramente non ci voleva molto, Falcone se lo sono dimenticato ormai. Ma lo spazio per strumentalizzare si occupa sempre».

L’ambientazione tra la nebbia nel Nord rimanda a Yara e c’è anche una specie di Unabomber: sono riferimenti voluti? E poi tra Sud e Nord esiste un contesto narrativo diverso degli eventi?
«Le Alpi erano più riconoscibili a livello internazionale, ambientarlo in Puglia sarebbe stato più difficoltoso per essere credibili tra i coreani, ad esempio, e in tutti i paesi in cui vengono tradotti i miei libri. Per il resto mi ispiro certamente a casi reali anche per vedere quanto la gente li conosca. Tra Sud e Nord non cambia niente: tutti conoscono qualcosa della vittima, ma nessuno si vuole fare coinvolgere, tranne davanti alle telecamere dove torna la memoria».