Vacca: «Tutti quei marxismi senza Marx. E la Puglia ha avuto un ruolo centrale»

Beppe Vacca
Beppe Vacca
di ​Alessandra LUPO
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Venerdì 16 Febbraio 2024, 15:22 - Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 19:16

«La Puglia? Tra gli esperimenti più riusciti di innovazione politica della Seconda Repubblica. Tramontate le vecchie nomenclature ha saputo aggregare attorno a un leader culture politiche differenti». Beppe Vacca, professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, già direttore dell’Istituto Gramsci, più volte parlamentare del Pci, è tra i grandi sostenitori dell’esperimento Emiliano (ma anche De Luca) e alla domanda sull’aria pre-elettorale che si respira anche a Bari, la sua città, si dice molto positivo. 


Professore, sarà a Lecce per parlare di marxismo partendo dal libro di Marcello Montanari “En attendant Marx”, titolo beckettiano per un volume che parla di uno iato insuperabile tra teoria intellettuale e pratica politica. Lei è tra i massimi studiosi del marxismo contemporaneo, condivide questa lettura?
«Il titolo in francese credo sia dovuto all’amicizia non breve tra Marcello Montanari e sua moglie Franca con Louis Althusser nei primi anni della formazione. Ma per il resto il titolo è chiaro: il volume opera una ricostruzione del dibattito sul marxismo in Italia sostenendo la tesi che in questi marxismi non ci sia stato abbastanza Marx. Semplificando potrei dire che la condivido».


Quanti marxismi ci sono stati in Italia?
«Diversi e spesso molto differenti tra loro perché mediati da altre correnti filosofiche come l’esistenzialismo, la fenomenologia e poi da alcune interpretazioni che si sono consolidate dando vita a vere e proprie scuole, come l’operaismo. La tesi è facile da riassumere: questo marxismo sarebbe stato inadeguato sia dal punto di vista del rapporto con Marx sia delle letture favorevoli o ostili di Gramsci. Il libro è rigorosamente storiografico e da questo punto di vista rappresenta un contributo importante per la ricostruzione di un momento capitale di storia politica degli intellettuali italiani, per usare una categoria gramsciana». 


A proposito di Gramsci, da sempre invocato dalla sinistra anche in epoca attuale. Con il senno di poi chi ha saputo cogliere davvero la sua eredità politica?
«Diciamo che dal punto di vista storico l’unica eredità culturale di Gramsci è stata la creazione politica e culturale di Palmiro Togliatti.

Se poi ci chiediamo di quale Gramsci Togliatti sia stato l’erede si apre però un discorso complicato che deriva dal fatto che Gramsci è stato un autore quasi del tutto postumo: in vita aveva scritto circa duemila articoli e relazioni non firmate. Scritti che sono croce e delizia degli editori critici, tra cui anche il sottoscritto, visto che attualmente sono presidente della Commissione scientifica dell'Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, “scritti” per l’appunto e non opere. Perché di opere ha lasciato solo un saggio sulla Questione Meridionale, scritto poco prima di essere arrestato e poi pubblicato dai suoi compagni a Parigi nel 1930. Poi le lettere e i quaderni che però sono stati resi noti al pubblico dal suo principale editore e si può dire anche interprete, Palmiro Togliatti».


Un interprete difficile da definire neutro.
«Ogni editore è a suo modo un interprete che deve tenere conto di varie condizioni e, nel caso di Togliatti, l’editore era anche il capo di un partito e una delle principali figure del comunismo internazionale e quindi, al di là dei condizionamenti espliciti, doveva tenere conto delle volontà di Gramsci ma anche adeguare la sua produzione al contesto dell’epoca, anche del comunismo internazionale».


A proposto di Questione meridionale, la riforma autonomista la ripropone con forza. Il centrosinistra fa opposizione. E poi?
«Se si riferisce a una proposta alternativa non mi pare ci sia. La risposta è tutta giocata di rimessa ed è una critica all’autonomia differenziata che assesta un ulteriore colpo all’unitarietà della Repubblica italiana. Ma è per l’appunto un colpo ulteriore perché per quanto mi riguarda quello fatale resta la riforma del Titolo V della Costituzione».


Negli ultimi giorni si è parlato molto dell’esposizione degli artisti italiani sui grandi temi internazionali come la guerra a Gaza. Crede che il Pd sia un po’ timido rispetto alle posizioni nette dei partiti della sinistra storica? 
«Capisco l’esigenza di collegare in sequenze storiche le vicende dei partiti italiani ma non vedo cosa vi sia di confrontabile tra Pci e Pd».


Il Pd resta la principale forza politica di sinistra in Italia.
«Sinistra e Destra sono categorie molto empiriche e di comodo. Mutano i loro rapporti e si influenzano reciprocamente. Oggi a livello nazionale e internazionale chi è la sinistra? Gli americani mentre la destra sarebbe Putin? Questa è la narrazione praticata dai media occidentali che sono sostanzialmente un’unica grande piattaforma dipendente dagli Stati Uniti. Altra era l’epoca in cui almeno in Europa e almeno fino agli anni Settanta nelle democrazie parlamentari c’era il confronto tra comunisti, democristiani, liberali, repubblicani, socialisti e poi per comodità c’erano una Destra e una Sinistra. Ma senza mai semplificare».


Men che meno in Italia.
«Certo, si immagini parlare della storia della Prima Repubblica dicendo che la Destra era la Democrazia Cristiana? Oppure che il Partito Comunista, fondatore della Repubblica ma non legittimato a governare anche per sua scelta, era la Sinistra. In sintesi Destra e Sinistra come categorie della politica europea nascono a ridosso di una mera topografia parlamentare: quelli di sinistra si sedevano da una parte e quelli di destra dall’altra dell’emiciclo ma non c’è pregnanza in queste categorie».


In Puglia questa pregnanza esiste ancora? 
«La Puglia è una delle regioni che vivono uno degli esperimenti più interessanti della produzione di innovazione politica della Seconda Repubblica, così come la Campania: quando la vecchia nomenclatura dei partiti non funziona più e si formano delle presidenze capaci di dar vita a delle formazioni politiche regionali che sono rimescolamenti di più culture politiche centrate sulla figura del leader».


Ora riusciranno a succedere a loro stesse?
«Bisogna capire se si vorrà proseguire su questa strada, che ha portato solo benefici, oppure no».


Si vota anche a Bari, qui Marx ci è arrivato o no?
«(ride) Questo ha a che fare con la storia della scuola di Bari. C’è stato un filone di sviluppo della presenza di Marx mediata da Gramsci che aveva come epicentro l’università di Bari e la casa editrice De Donato che è stato un arricchimento e uno sviluppo di quello che possiamo definire il marxismo italiano ma il marxismo italiano, se vogliamo una formula, è Labriola-Gramsci-Togliatti non i professori, me compreso». 
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