Il voto in Sardegna, le tre lezioni sulle coalizioni e il caso Puglia

Alessandra Todde e Paolo Truzzu
Alessandra Todde e Paolo Truzzu
di Francesco G. GIOFFREDI
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Giovedì 29 Febbraio 2024, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 11:02

Cosa insegna il voto in Sardegna? Prima lezione, ovvia: le coalizioni, se ci sono, aiutano a vincere. Seconda lezione, intuitiva: le coalizioni hanno tuttavia bisogno di front runner presentabili, di candidati che abbattono la quarta parete con l'elettorato, di nomi provvisti di appeal e di quel misterioso “quid” che risveglia e trascina. In Sardegna il differenziale di voti rispetto alle liste a sostegno (in positivo, per Alessandra Todde; in negativo, per Paolo Truzzu) raccontano molto, in tal senso. Terza lezione, spietata: la coalizione in sé non basta, perché dipende dal collante. In larga parte è il fattore P, cioè “paura” e “potere”, i due reali e più poderosi adesivi delle alleanze: la paura di perdere, che tutto salda insieme; e il patto di potere e governo, spesso il miglior lubrificante che olia gli ingranaggi politici e fa marciare le alleanze. In Puglia è un copione ben noto.
Insomma: le coalizioni sì, esistono, ma piano con i facili entusiasmi. Innanzitutto perché le imminenti Europee saranno uno spericolato crash test: si vota col proporzionale, i partiti correranno ciascuno per sé in una potenziale, e già visibile in embrione, lotta fratricida. E poi perché “paura” e “potere” sono un mastice fragile, sul lungo periodo: anche qui, le vicende pugliesi sono indicative. Sarebbe preferibile un’altra “p” a legare tutto: il progetto.
In Sardegna vince il centrosinistra, rispolverando il campo largo con epicentro nell'asse Pd-M5s e battezzando una neo-presidente con buon ancoraggio territoriale. Perde, ed è la prima volta in epoca meloniana, il centrodestra, nonostante il fronte apparentemente unito e pagando forse la scommessa sul candidato, frutto di imposizione romana o comunque di cervellotiche alchimie di coalizione, tra veti e prove muscolari. Torna il bipolarismo? Dipende e dipenderà da più fattori. E le tre lezioni sarde, con ripercussioni romane, hanno molte similitudini col quadro pugliese. 

Il centrodestra ad alta tensione e la classe dirigente

Il centrodestra, innanzitutto. Per la prima volta, l'alleanza di governo si trova a dover gestire la sconfitta. E lo scenario non è dei migliori: rimpallo a denti stretti di responsabilità, spettro del voto disgiunto (indiziata numero uno è la Lega), dubbi sul fuoco amico, accuse sulla selezione del candidato (in quota FdI), domande su qualità, profondità, capillarità di una classe dirigente che sappia andare oltre l'effetto traino delle leadership nazionali (Meloni su tutti). In poche parole: resa dei conti. Cosa vi ricorda? Esatto: la Puglia.
Il centrodestra regionale, da anni, è attraversato da fratture profonde, veti tra leader o capibastone, antichi veleni, ambizioni di piccolo cabotaggio: alle Politiche funzionò il vento nazionale che sospingeva Meloni, e tuttora il governo è l’unico, vero cemento della coalizione, oltre che la chiave per raccogliere voti. Dopodiché i partiti, già a Roma e dintorni inclini a marcare identità e offerte politiche ben distinte (e a volte distanti), in Puglia faticano da anni a dialogare e a coagularsi attorno a un progetto comune. Su tutto ciò si innesta il timido e insufficiente ricambio della classe dirigente: da molti anni il centrodestra non riesce a coltivare un vero e proprio vivaio di amministratori e volti nuovi anche della società civile, o – nei rari casi in cui accade – non sono adeguatamente valorizzati. Le elezioni di Bari e Lecce dovrebbero essere l’occasione per invertire la rotta pugliese, ma le premesse non sono al momento delle migliori. Innanzitutto, i tempi: a Lecce solo l’altroieri è stata ufficializzata la candidatura di Adriana Poli Bortone, a Bari è invece ancora buio pesto.

Troppo tardi. E poi il metodo e i nomi: i macchinosi e dilatori tavoli nazionali; la sensazione che le caselle pugliesi siano solo tessere di un mosaico più ampio e legato a quote, pesi e contrappesi tra partiti, accentuando la distanza tra Roma e i territori; i continui veti (locali) che azzoppano i candidati; l’incapacità di fare la mossa del cavallo e tirare fuori dal cilindro nomi di “rottura”; fino poi a rifugiarsi in candidature al ribasso o ripescate da un’altra epoca. Un film già visto a Foggia (sconfitta) e a Brindisi (vittoria, grazie però alle divisioni altrui). Tutto sta nel capire - ma è un nodo innanzitutto nazionale - cosa il centrodestra voglia essere, su temi, impostazione del progetto politico, classe dirigente, nel continuo dualismo tra sovranismo populista e conservatorismo liberale, tra vecchie lealtà ai capi e competenze.

Il centrosinistra e il "campo largo" (o "fisarmonica")

Il centrosinistra esulta, ma fino a pochi giorni fa il cielo sembrava plumbeo. E le nubi non sono del tutto allontanate. Il “campo largo” è perlopiù un “campo fisarmonica”, a composizione variabile, che si estende o restringe in base a picchi polemici ed emergenze democratiche (reali o presunte), “guerriglie corsare” contro il governo (come dice Paolo Pombeni), ruggini e calcoli elettorali. Pd e M5s hanno insomma – al di là del successo sardo – un problema di alleanze, chimica, visioni, progetto d’ampio respiro, rapporti tiepidi o gelidi tra Elly Schlein e Giuseppe Conte. In Puglia si sbandiera il modello Foggia, primo, vero caso territoriale di alleanza elettorale vincente Pd-M5s. Tanto in Sardegna quanto nel capoluogo dauno, Todde e Marida Episcopo sono state indicate dai cinque stelle, così come accaduto a Brindisi. È un campanello che trilla forte: i pentastellati accettano di rinsaldare l’alleanza soprattutto (o solo?) se possono intestarsi l’indicazione del candidato, altrimenti nicchiano, rallentano, sbuffano, scalciano, pretendono discontinuità. È quanto sta(va) accadendo a Bari e Lecce: nel primo caso è intervenuto l'accordo, nazionale, sulle primarie last minute, assecondando il timore Pd della sconfitta bruciante e della polverizzazione del patto di governo che da 20 anni regge capoluogo e Regione; nel Salento invece l’intesa è ancora in standby.
Tradotto: l’asse Pd-M5s c’è, ma fino a un certo punto, e incidono tanto i nomi scelti. Anche nel campo largo (o fisarmonica) incide oltretutto il fattore Europee e il tentativo di massimizzazione dei consensi di partito, come pure rilevato di recente e polemicamente da settori del Pd pugliese puntando l’indice contro il M5s. Adesso, l’onda di Sardegna pare spazzare temporaneamente via perplessità e sospetti. E mette pure Schlein al riparo da guerre intestine e contestazioni imminenti nel Pd: vince la linea dei filo-M5s, passano in secondo piano i dubbi sulle strategie ondivaghe della segretaria, si smussano le tensioni latenti con la folta e solida base degli amministratori locali (in rivolta, a cominciare dalla Puglia, per la non-scelta su terzo mandato e abuso d’ufficio). Da destra a sinistra le coalizioni ci sono, e se ci sono è sempre meglio. Ma il “fattore P” di paura di perdere e patto di potere non potrà mai bastare. Senza la “p” di progetto.

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