Operazione "Diarchia": Prima “soci” inseparabili, poi rivali sanguinari. «Così è nata la scissione»

Operazione "Diarchia": Prima “soci” inseparabili, poi rivali sanguinari. «Così è nata la scissione»
di Erasmo MARINAZZO
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 31 Maggio 2017, 19:55 - Ultimo aggiornamento: 19:59

Un debito non riconosciuto ad Augustino Potenza, a monte della scissione con l’ex amico di famiglia Tommaso Montedoro e compagno di tante disavventure giudiziarie. E anche la circostanza che Potenza tornò libero a luglio del 2012 per scadenza dei termini di custodia cautelare e venne riconosciuto innocente dall’accusa del duplice omicidio dei coniugi Fernando D’Aquino e Barbara Toma. Montedoro fu colpito invece dal blitz “Tam Tam”. E per quegli stessi fatti di sangue è stato condannato a 30 anni di reclusione in tempi recenti.

«Potenza era libero di esercitare il suo carisma, Montedoro era invece agli arresti domiciliari a quasi 1.000 chilometri da Casarano», ha spiegato il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Giampolo Zanchi, nella conferenza stampa tenutasi in Procura con la partecipazione del tenente colonnello Saverio Lombardi (comandante del Reparto operativo), del maggiore Paolo Nichilo (comandante del Nucleo investigativo), del capitano Andrea Massari e del tenente Rolando Russo. 

Che faceva Potenza? Non si parla di affari illeciti contestati a quest’uomo ammazzato il 26 ottobre dell’anno scorso o a gente vicina a lui nel decreto di fermo dell’operazione “Diarchia” (in greco è il sistema di governo in cui due persone, o due soggetti giuridici, esercitano lo stesso potere: ovvero Potenza e Montedoro). Racconta, tuttavia, il decreto, del suo carisma criminale. O perlomeno di quello che avrebbe voluto dare ad intendere. L’inchiesta gli ha ritagliato un ruolo cruciale. E qui vengono in mente figure come quelle del signor Wolfe del film “Pulp Fiction”: un uomo che risolve problemi.
Come nel caso dell’imprenditore di Casarano che ad ottobre dell’anno scorso subì una rapina in casa. Ha riferito l’interessamento che avrebbe mostrato Potenza: «Mi disse che avrei potuto dormire tranquillo con le porte aperte. Mi assicurò che stava facendo di tutto per mettere un po’ di ordine in quella città affidando a tutti dei compiti ben precisi: chi ai parcheggi, chi alle varie attività di loro interesse». 

In termini di persona votata a mettere in opera la sua capacità a risolvere problemi, ne parlò anche la moglie: «Mi confidava di aver aiutato molte persone nel lavoro...a casa venivano persone che non riuscivo a riconoscere, per avere consigli e soluzioni anche per i loro problemi familiari». 
La storia del clan di Casarano della Sacra corona unita tracciata dagli inquirenti racconta del peso assunto da Potenza e di un debito che Montedoro non avrebbe voluto riconoscere all’ex amico. Eppure i due avevano anche condiviso la latitanza ai tempi dei mandati di cattura per gli omicidi Toma-D’Aquino. E lo stesso Montedoro, nelle intercettazioni telefoniche, chiamato Potenza con il soprannome di “braccetto”. La conferma eloquente di quanto lo teneva in conto quando c’era da parlare di soldi e di conti.

La spaccatura? Gran parte degli esponenti di spicco della criminalità del Basso Salento avrebbero deciso di stare sotto la bandiera di Montedoro. Così hanno riferito ancora i carabinieri nella conferenza stamp. Vecchia guardia come, ad esempio, Damiano Cosimo Autunno. E Giuseppe Corrado di Supersano, conosciuto con il soprannome di “Pichisi” condannato in via definitiva per la morte del carabiniere Michelino Vese durante l’inseguimento notturno del 15 dicembre del 2004. 

Autunno e Corrado vengono indicati come i luogotenenti di Montedoro. Pronti a prendere ordini e a trasferirli ad altri sodali. I cugini Antonio e Luca Del Genio sono indicati come il braccio armato del clan: rispondono del tentato omicidio di Luigi Spennato. E - dicono le intercettazioni - avrebbero dovuto eseguire la sentenza di morte che avrebbe deciso Montedoro per Ivan Caraccio.

La “lupara” bianca. Dalla parte di Montedoro ci sarebbero stati anche lo stesso Caraccio, Marco Petracca e Lucio Sarcinella: a tutti viene contestata l’accusa di associazione mafiosa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA