Azzurra Rinaldi: «Solo il lavoro ferma la violenza economica»

L’economista, direttrice della School of Gender Economics: «È un fenomeno sempre più diffuso. Serve una forte sensibilizzazione e un supporto alle famiglie»

Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi
di Alberto Gentili
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Mercoledì 27 Marzo 2024, 14:35 - Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 07:00

La violenza economica è un fenomeno molto diffuso, ma ancora poco noto. C’è un solo antidoto: il lavoro femminile».

Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica e direttrice della School of Gender Economics presso Unitelma Sapienza, appena nominata consulente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e su ogni altra forma di violenza di genere, fa il punto su una piaga sociale ancora poco conosciuta. Ad accendere un faro era stata a inizio anno la presidente della Cassazione, Margherita Cassano sottolineando che, a proposito di femminicidi e violenza, «serve una forte azione di sensibilizzazione e prevenzione e bisogna promuovere l’indipendenza economica delle donne, per favorire la libertà di denuncia».

Ma in concreto che cos’è la violenza economica? 

«Sono atti di controllo da parte di una persona nei confronti di un’altra, rivolti a impedire che questa persona possa produrre denaro e gestirlo in autonomia. La violenza economica è entrata nella Convenzione di Istanbul del 2011 sotto il capitolo più ampio della violenza domestica». 

Però non se ne sente molto parlare. 

«È vero ed è così perché alcuni comportamenti di controllo sono normalizzati da una cultura patriarcale. Il lavoro da fare, sia con le donne sia con gli uomini, è aiutare a riconoscere questi comportamenti». 

Provi ad aiutare anche noi. 

«Le faccio qualche esempio. Se l’uomo lavora e la donna no, situazione che riguarda il 50% della donne italiane, quando lei va a fare la spesa e lui le chiede di controllare lo scontrino, già questa è violenza economica. Altri esempi: il controllo della carta di credito, dell’estratto conto bancario, etc. Si parla di comportamenti sistemici di controllo». 

Sono situazioni molto diffuse? 

«Secondo l’Istat quattro donne su dieci che si rivolgono ai centri antiviolenza hanno subito violenza economica. E, come sappiamo, chi si rivolge a questi centri rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio.

Martina Semenzato, la presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, ha voluto mettere come focus della sua presidenza la violenza economica proprio perché se ne parla troppo poco. Così inizieremo a raccogliere dati, anche per dare l’esatta dimensione del fenomeno». 

Alcuni però sostengono che più che una violenza è una dipendenza economica. 

«In realtà la dipendenza economica fa parte della violenza economica. Secondo l’Ocse, il 22% delle donne italiane è in una condizione di dipendenza economica, in Germania e Austria sono il 5%, in Polonia il 10%. Dipendenza che viene definita attraverso tre fattori. Il primo: non sei in grado di far fronte in autonomia anche a un piccolo choc economico. Ad esempio la rottura della lavatrice: se non guadagni e non gestisci il denaro non puoi chiamare il tecnico per la riparazione, devi chiedere il permesso. Il secondo fattore: la delega strutturale al partner della gestione economico-finanziaria della famiglia. Il terzo: non essere pienamente consapevole degli impegni finanziari della famiglia a lungo termine, come l’importo della rata del mutuo». 

Perché secondo lei in Italia questo fenomeno è più marcato che negli altri Paesi europei? 

«Perché le donne non lavorano, perché il mercato del lavoro le rigetta, perché c’è una serie di aspettative di genere molto radicate. Ci si aspetta che la donna quando diventa madre scelga la maternità come ruolo prioritario. Molte lasciano il lavoro dopo aver avuto un figlio. Lo stesso vale per gli uomini: i sogni, le aspirazioni e le ambizioni passano in secondo piano quando diventi padre. Da quel momento in poi diventi quello che deve portare i soldi a casa, l’uomo bancomat». 

Come si fa a difendersi dalla violenza economica? 

«Ci vorrebbe un sistema di supporto alle famiglie. Bisognerebbe fare un enorme lavoro culturale sulle donne e sugli uomini per spiegare che la genitorialità non deve per forza gravare esclusivamente sulle madri. Va introdotta nelle scuole una narrazione in cui si spiega alle bambine che lavorare e guadagnare denaro proprio significa libertà». 

La dipendenza economica si trasforma in una gabbia?

«Esattamente: impedisce di essere libere. Conosco molte donne che faticano a uscire da una relazione tossica, proprio perché non guadagnano e non sono libere di scegliere. Sarebbe un atto rivoluzionario se le donne cominciassero a parlare di soldi, dando al denaro il ruolo fondamentale di libertà e di scelta che ha nelle nostre vite. C’è solo un antidoto alla violenza domestica ed è il lavoro femminile».

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