La città scomparsa (Rudiae)

Parco archeologico di Rudiae
Parco archeologico di Rudiae
di Mario BERNARDINI
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Martedì 22 Agosto 2023, 14:37 - Ultimo aggiornamento: 23 Agosto, 10:20

Angiolino, l’autista, mettendosi al volante, mi chiese: Dove andiamo? – A Rudiae! – dissi. – Per me si va nella città dolente... – cominciò Angiolino, continuando poi per suo conto. Non è facile imbattersi in un autista che abbia dimestichezza con la poesia, ma Angiolino era un’eccezione. Egli si levava ogni giorno all’alba, inforcava una vecchia bicicletta azionata da un motorino del quale raccontava meraviglie e, accompagnato dal suo fedele segugio, girava per le campagne a caccia di selvaggina sino all’ora in cui doveva presentarsi in ufficio. Dopo aver percorso molte centinaia di chilometri seduto al volante di una veloce automobile che guidava con perizia, egli rientrava a casa e passava il tempo sfogliando i libri di scuola dei figli. Leggeva tutto, ma i versi erano quelli che lo colpivano maggiormente ed egli li mandava a memoria come le canzoni. Tante volte accadeva che citasse versi, allungati o abbreviati, di Carducci, di Leopardi, di Dante o di altri poeti che, magari, uno non rammentava o non aveva mai letto e allora, per non fare una cattiva figura, conveniva fingere di essere distratti, altrimenti Angiolino si scandalizzava: E come, non sa di chi sono questi versi? Sono di Carducci, che diamine!
Quella mattina, chissà perché, sentendo che dovevamo recarci a Rudiae, aveva cominciato a citare il padre Dante. Rudiae, però, distava poco e perciò la recitazione fu breve.

Questa città morta salentina si vuole che sia stata la patria del grande poeta Ennio, il padre della poesia latina, tante volte citato da Cicerone. Egli era di Rudiae: «Nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini», lasciò scritto, ma di quale Rudiae si tratti veramente non si sa, perché, come oggi abbiamo, per esempio, più paesi che hanno lo stesso nome di S. Pietro, S. Maria o S. Donato, così allora vi erano due o tre centri abitati di una regione che avevano lo stesso nome. Infatti, vi era una Rudiae nelle vicinanze di Lecce, nel comprensorio delimitato tra le vie Lecce - Lequile e Lecce S. Pietro in Lama; una seconda Rudiae nelle vicinanze di Francavilla Fontana, tra Brindisi e Taranto; una terza, infine, in provincia di Bari, presso Canosa. Comunque, nella Rudiae salentina, c’è un fondo chiamato Epitaffio, dove, secondo qualche scrittore locale, sorgeva la casa e la tomba di Ennio. In ricordo di esso, era stato scolpito un epitaffio, dal quale aveva preso nome il fondo. Ma che Ennio sia nato proprio in questa località, non si può affermarlo con assoluta certezza. Il Ribezzo, per esempio, citando Strabone e Plinio, a proposito di Rudiae, dice che il poeta doveva essere nato nella città omonima che sorgeva nei pressi di Francavilla. D’altro canto, è noto il particolare che ad Ennio piacevano le rape e i sarachi di Brindisi, e questo fa pensare che, trovandosi non lontano dalla città predetta, abbia avuto modo di cibarsene sovente. Se si osserva la Rudiae vicina a Lecce, dal ciglio di un tratto di strada in discesa che attraversa il comprensorio, dividendolo in due parti, non si vede nulla di antico perché tutta la zona è da secoli appoderata. È l’occhio dell’archeologo quello che scruta e individua il corso delle mura, al di sotto di una piega di terreno, oppure intravede il fossato antistante ad esse, in una lieve depressione; oppure, si accorge della presenza di una necropoli, osservando le miriadi di cocci che affiorano sul terreno. Su Rudiae, però, era venuto un ricognitore, che io avevo chiesto all’Aeronautica, ed aveva eseguito una serie di «fotogrammi», a circa mille metri di altezza. Per ottenere migliori risultati, avrebbe dovuto eseguire le fotografie allo spuntare o al calar del sole, in modo da sfruttare i raggi radenti ed ottenere maggior rilievo di particolari. Invece, l’aereo aveva eseguito le riprese ad ora più tarda, mantenendosi, per giunta, ad una quota eccessiva, perché quando si tratta di piccole zone è preferibile fotografare da una altezza non superiore ai cinquecento metri con l’apparecchio leggermente inclinato.

Tuttavia, le fotografie eseguite potevano essere utilmente usate, anche perché era il periodo primaverile, e la differenza d’intensità della vegetazione, più alta nei terreni profondi e quasi nulla in quei tratti che custodivano i ruderi, consentiva un sufficiente rilevamento. Ora, si trattava di controllare a terra le indicazioni fornite dall’aereo, ed io, aiutandomi con una lente d’ingrandimento, ero riuscito a individuare una costruzione composta di due ambienti, sepolti in un fondo adiacente alle mura. Bisognava, però, andar cauti, perché la lettura di un «aereofotogramma» può anche indurre a scambiare le fondamenta di un edificio moderno abbandonato, per un monumento antico. Volli fare, perciò, prima alcune ricerche catastali, per assicurarmi che sul posto non fosse sorta, in epoca recente, qualche costruzione andata in rovina. La ricerca risultò negativa e allora, decisi di parlare con la proprietaria del fondo, per ottenere il consenso di mettere in luce la costruzione. Non voglio dire col poeta Simonide che dicendo donna si dice danno, ma è certo che, spesso, quando si ha da fare con una donna è un castigo di Dio, perché le donne hanno sempre paura di essere prese in giro, di subire danni, e perciò sono diffidenti e tetragone ad ogni tentativo di convincerle. Nel mio caso, per fortuna, si trattava di una donna ex maestrina elementare, discretamente sveglia, ma con tutto ciò, come avrei potuto convincerla che poco discosto dalla sua casa, nel campo attiguo, vi era la costruzione svelata dalla fotografia aerea? Che cosa poteva saperne la poverina di tutte le nostre diavolerie? Lei sapeva solo che ogni tanto, nel suo podere, venivano fuori ossa, pietre e cocci, ma non sapeva né voleva sapere altro e si mostrava infastidita. Soprattutto, non riusciva a convincersi in quale maniera avesse potuto scomparire dalla faccia della terra una città intera che, secondo quanto affermavo io, aveva una doppia cinta muraria lunga circa quattro chilometri all’esterno.

Questo fatto la rendeva scettica, malgrado i ritrovamenti di tombe e di ruderi ai quali, mi diceva, di avere assistito sin dalla prima infanzia. Con molta pazienza cominciai a spiegarle che in quel sito doveva essere accaduto, in un lunghissimo spazio di tempo, un fenomeno simile al naufragio di un vascello. Questo, andando a fondo, lascia galleggiare sulla superficie del mare miriadi di oggetti; le città, invece, scompaiono molto lentamente nel corso dei secoli, lasciando sulla superficie della terra moltissimi cocci, con qualche rudere. Dapprima è un sottile strato di terra trasportato dal vento, quello che ricopre le pietre cadute degli edifici abbandonati dall’uomo; poi sarà il fango trasportato dall’acqua, infine, saranno i rifiuti di ogni specie accumulatisi per secoli, finché tutto si nasconde e scompare all’occhio umano. Così cercai di spiegare il fenomeno alla donna la quale, ascoltandomi, cominciava a riflettere ed a interessarsi. «Ecco, che cosa era accaduto!» ripeteva a sé stessa, quasi per convincersi di quanto le avevo detto. Sul posto sorgeva una città chiamata Rudiae? «No, – incalzava – Rusce, diciamo noi! Poi riprendeva, guardandomi con sospetto: ma come era questa città della quale mi parla? Qui non si vede nulla!». Allora la condussi alla finestra, le indicai la linea delle mura che correva ai bordi del suo fondo e le mostrai il piccolo anfiteatro spiegandole perché i Romani lo avevano edificato. Le dissi che non doveva pensare ad una città moderna con le strade diritte e i grandi palazzi. Essa, invece, doveva immaginare un modesto centro agricolo e artigiano, composto di poche centinaia di persone che abitavano rustiche casette sparse lungo il declivio. Forse i primi abitanti erano stati Siculi, giunti sul finire dell’epoca del bronzo dopo i quali dovevano essere sopraggiunti i Rodi e i Cretesi secondo quanto scrive Erodoto, e i primi, anzi avrebbero dato il nome alla città. Forse queste genti provenivano dal versante jonico e, propriamente, dalla zona Porto Cesareo. Mi sembrava, infatti, che la vecchia strada la quale congiunge Lecce con Copertino e Leverano, costituisse un’antichissima corrente di traffico tra il versante occidentale della provincia di Lecce e il capoluogo.

Ellenizzati dai tarentini, i nuovi venuti avevano fondato vari centri, tra cui Rudiae. Nell’ambito delle mura della città dovevano essere compresi vasti appezzamenti per l’allevamento del bestiame e per le culture in caso di assedio. Certamente, i Messapi, oltre alle mura ed alle case, avevano dovuto costruire, una piazza sia pure di modeste proporzioni, avevano dovuto erigere qualche edificio per il culto delle loro divinità che, in sostanza, appartenevano al pantheon ellenico e, finalmente, avevano dovuto costruire un teatro. Sopraggiunti i Romani, verso il III secolo a.C., avevano dovuto riattare le mura munendole di torri, ed inoltre avevano dovuto trasformare il teatro in anfiteatro. Infatti, osservando la fotografia aerea, si nota che mentre un settore dell’edificio presenta un semicerchio perfetto, denunziando la presenza originaria di un teatro il resto della costruzione appare iscritto in un poligono regolare, tanto da fare pensare ad un successivo prolungamento di essa, che forse sarà stato eseguito in epoca imperiale ai tempi di Commodo, come lascia supporre un’epigrafe mutilata, rinvenuta a poca distanza dall’anfiteatro, insieme con rocchi di grosse colonne di pietra rivestite di stucco. La città, composta in prevalenza di agricoltori e artigiani, era ancora in piedi nel secolo XII, epoca durante la quale, a detta dei cronisti locali, Guglielmo il Malo l’avrebbe saccheggiata e distrutta.
I Rudini avevano svolto un’attività artistica notevole. Essi, infatti, avevano costruito vasi e stoviglie, come molto più tardi avrebbero fatto i loro successori di S. Pietro in Lama, un centro limitrofo a Rudiae. E questi vasi e stoviglie noi li avevamo trovati nelle tombe, che essi avevano scavato nell’area recinta dalle mura. Erano sarcofaghi di grosse pietre locali, loculi scavati nella roccia e coperti dai soliti lastroni trasversali, oppure camerette alle quali si accedeva mediante una scalinata che terminava presso una porta rastremata in alto. Dentro c’erano le solite fasce azzurre e rosse, spesso interrotte da una specie di patera umbilicata, che a prima vista sembrava una grossa margherita; oppure erano altri motivi: figurine di demoni, fiori, ecc.
Rudiae era vicinissima a Lupiae (Lecce), distandone appena due chilometri, ma era stata edificata molto prima di questa. Dopo la distruzione operata da Guglielmo il Malo, il centro ridotto evidentemente ad un ammasso di rovine, era stato abbandonato per vari secoli col risultato che, trovandosi in declivio, i ruderi erano stati ricoperti più celermente dalla terra trasportata dalle piogge e dal vento, così che alla fine erano pressoché scomparsi dalla superficie. Raccontai tutta questa storia alla donna che mi ascoltava titubante. Poi, si scosse come se fosse stata colta da un pensiero improvviso e mi disse: – Venga, le voglio mostrare una vecchia tomba già violata che abbiamo scoperto l’altro giorno. Ci recammo in un angolo del fondo e mi parve che si trattasse di una tomba composta di tegoloni. Allora chiamai l’autista per smuovere una pesante lastra di pietra che si trovava poco discosto, nella speranza di trovarvi incisa qualche cosa, ma non c’era nulla!
Mentre ritornavamo in città, confessai ad Angiolino la mia delusione e gli dissi: «Speravo di trovare incisa almeno la solita iscrizione funeraria!». E lui: «Vero è ben, Pindemonte, anche la speme ultima dea fugge i sepolcri!». Finsi di non ascoltarlo e, poco dopo, scesi dall’automobile mentre Angiolino, portando la mano al berretto, continuava a recitare il Foscolo per conto suo.

(1967)

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