Se le parole esprimono razzismo

Tra contraddizioni e incertezze le idee di giustizia avanzano e la lingua rispecchia i cambiamenti

Se le parole esprimono razzismo
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 18 Giugno 2023, 05:15 - Ultimo aggiornamento: 17:18

Abbiamo parlato altre volte di «Lessico famigliare», romanzo di Natalia Ginzburg; pubblicato nel 1963, nello stesso anno vinse il Premio Strega e da allora continua a essere ristampato. È bello e si legge piacevolmente: raccontando in forma partecipata, affettuosa e autoironica la vita quotidiana di una famiglia dell’alta borghesia piemontese dal 1925 ai primi anni ’50, rispecchia abitudini e forme della comunicazione linguistica di decenni fa. Il notevole scarto temporale consente a noi raffronti con il presente. Nel risvolto editoriale (anonimo ma attribuibile con sicurezza a Italo Calvino) della prima edizione del libro si legge: «La Ginzburg stavolta ha voluto evitare ogni invenzione come ogni indeterminatezza. (…) Un libro unico, dunque, affollato come un gruppo fotografico che, vecchio appena di alcuni anni, già ci dà l’impressione del tempo trascorso nei visi curiosamente giovanili in cui riconosciamo fisionomie note: un ritratto di famiglia dell’Italia migliore».

Le sfumature del lessico


Personaggio ricorrente del libro è il padre, professore universitario, uomo buono, antifascista, amico di Turati, all’antica e decisamente brontolone. «Era molto severo nei suoi giudizi e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, “un sempio”. (…) Oltre ai “sempi” c’erano “i negri”. “Un negro” era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere.

Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui “una negrigura”. – Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! – ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava “una negrigura” portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita». Il padre di «Lessico famigliare» dunque usa negro e negrigure (parola, quest’ultima, forse da lui inventata) per qualificare tutto ciò che non gli va a genio. Come usa in modo personalissimo altre parole, spesso di origine dialettale, che a lui piacciono molto, a noi sconosciute o semisconosciute: «sbrodeghezzi», «potacci», ecc. (ne ha parlato Francesco Montuori, università di Napoli, in un articolo della miscellanea per Rita Librandi, altra collega napoletana). Le parole sospettabili di razzismo in quel lessico famigliare non hanno la medesima connotazione che hanno ai nostri occhi, sembrano quasi bonarie, confacenti alla personalità del brontolone inoffensivo che parla in quel modo. Il nostro modo di ragionare e di sentire è diverso rispetto a quello ricostruito nel romanzo.

Le parole che offendono


C’è una differenza sostanziale, riguarda la connotazione razzista di certi termini. Oggi è diverso, senza dubbio, oggi negro è parola che offende. La più grande pallavolista italiana, Paola Egonu, riceve di continuo insulti per il colore della sua pelle. Dopo la vittoria nella finale per il terzo posto contro gli Stati Uniti ai recenti Mondiali, così si è sfogata con il suo procuratore: «Non puoi capire, non puoi capire, mi hanno chiesto anche se sono italiana… Questa è la mia ultima partita in nazionale, sono stanca». 
Paola Egonu, nata in Italia da genitori nigeriani, ovviamente ha la cittadinanza italiana. Viene offesa per il colore della pelle. Mario Balotelli, altro atleta italiano molto noto, non ha paura di denunciare sui social gli insulti razzisti che troppo spesso riceve. Sono episodi (verosimilmente non saranno gli ultimi) di quanto capita a personaggi famosi, giustamente insofferenti di fronte alle offese. Ma vien da chiedersi cosa succede, nella vita quotidiana, a persone meno famose delle due nominate, che hanno possibilità di reazione infinitamente minori, non possono difendersi. Mi allarma moltissimo, lo dico apertamente, sentire che nel dibattito politico dei nostri giorni ricorrono spesso parole come stirpe, ceppo, etnia (addirittura razza), con riferimento alla situazione italiana, al colore della pelle degli immigrati e ai presunti attacchi esterni (o complotti, addirittura) che secondo alcuni minacciano la nostra identità. Siamo messi davvero male. Ma il razzismo non è fenomeno solo italiano, purtroppo è universale: inquina la mente e il cuore di molte persone.
Torniamo al romanzo da cui siamo partiti e alle parole “negro” e “negrigura”. Oggi nessuno potrebbe usare certe parole e certe frasi senza passare per razzista, la sensibilità linguistica attuale è diversa rispetto a quella di alcuni decenni fa. Una volta in classe ho provato a interrogare i miei studenti: senza esitazioni, la maggioranza afferma che negro è razzisticamente connotato, più neutro appare “nero”, pochissimi tirano in ballo “afroamericano”, nessuno propone “di colore” o altre espressioni. Nell’italiano comune la partita si gioca tra negro e nero. Il calco afroamericano è attestato da tempo nella nostra lingua, addirittura dal 1895, come documenta un articolo del volume XXIV degli «Studi di lessicografia italiana»: il vocabolo compare come attributo di razza (a conferma di quello che dicevamo prima), in un discorso che discute le divisioni interne alla società americana. 

L'uso culturale dei termini


Nella nostra lingua l’adozione (ridotta) di afroamericano si lega a sollecitazioni provenienti dal discorso culturale e politico statunitense. Nella «Autobiografia di Malcom X» (il leader nero assassinato nel 1965), uscita in traduzione italiana nel 1967, il termine è usato spesso per riferirsi all’Organizzazione dell’Unità Afro-Americana, fortemente impegnata nella lotta antirazzista. Dopo la presa di posizione di Jesse Jackson nel corso della campagna presidenziale americana del 1988, negli Stati Uniti il termine diventa una manifestazione linguistica della correttezza politica. In quella società dove è nato il “politicamente corretto”, l’ex presidente Obama ha firmato una legge che elimina dalla legislazione federale le parole «nigger» (sostituita con «Afro-American») e «oriental» (sostituita con «Asian-American»). Ma in quella stessa società c’è voluta una guerra civile perché il 18 dicembre del 1865 entrasse in vigore il tredicesimo emendamento della Costituzione americana che aboliva ufficialmente la schiavitù. E ai nostri tempi il razzismo non è certo scomparso, come provano decine di episodi, anche atroci, di cui si occupano le cronache mondiali.
Tra contraddizioni e incertezze, passo dopo passo, spesso in forme non limpide, le idee di giustizia avanzano e la lingua rispecchia il cambiamento. Restano, ineliminabili, le reliquie del passato e si pone il problema di come comportarsi con le testimonianze e con le opere che documentano quel passato. Nella prima traduzione italiana di «Via col vento» (1936), il romanzo di Margaret Mitchell da cui fu tratto il film famosissimo con una splendida Vivien Leigh e un fascinoso Clark Gable, il frequentissimo «negro» traduceva senza scalpori l’originale «nigger». Nella nuova traduzione italiana di «Via col vento» (uscita da Neri Pozza, pochi anni fa) la parola «negro» è scomparsa, sostituita da «nero», consona all’odierno modo di sentire.
È questa la strada da praticare, sostituire o cancellare sistematicamente il passato che può turbarci? La situazione è complessa, la risposta non è semplice.
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