Suppressa, la magia nella quotidianità

"Il comò" di Lino Suppressa
"Il comò" di Lino Suppressa
di Brizia MINERVA
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Sabato 4 Marzo 2017, 11:45 - Ultimo aggiornamento: 11:59

La storia di un artista come quella di Lino Paolo Suppressa si inscrive dentro le contraddizioni che ne determinano il suo carattere e identità. Uno dei maggiori talenti del Sud e allo stesso tempo il più simbiotico e nazionale artista di Lecce, città di origine e di ininterrotta residenza, dalla sua nascita nel 1915 alla sua morte nell’aprile del 2003. Personalità dalla doppia natura contadina e borghese; contadina nel senso di un radicato sentire per i valori ancestrali della propria terra, della tradizione e della famiglia, come resistenza da ogni assedio esterno; borghese per origini familiari e formazione, nonché per il suo lavoro da colletto bianco condotto per trent’anni nella Banca d’Italia.

Ed è proprio nell’ambito della serrata routine da impiegato bancario che si sviluppa e sprigiona tutto il suo talento, l’ eccezionale capacità di cogliere ed elaborare i modi e i fatti dell’arte contemporanea sia a livello nazionale, a partire dalla sua formazione artistica ottenuta a Firenze, dove frequenta il liceo artistico, sia in ambito locale attingendo al migliore maestro possibile che potesse avere a Lecce, il pittore Geremia Re.

Infanzia e giovinezza dell’artista sono narrati da lui stesso in tre scritti pubblicati nella rivista “L’Albero” - periodico tutt’altro che provinciale creato nel 1948 da Girolamo Comi e altri intellettuali a Lucugnano, sulle cui pagine in pieno dopoguerra si alternavano interventi di narratori poeti e saggisti di primo piano, quali Luzi, Gatto, Caproni, Macrì, Anceschi – .

In queste sue pagine biografiche l’artista rivela il profondo rapporto tra scrittura e pittura, memoria e realtà, e il tema sempre caro e sempre suo, la provincia, il fluire calmo e sereno dei giorni in un mondo appartato, la campagna, la sua amata città, Lecce: “Guardavo la campagna che si apriva davanti, splendida e veramente miracolosa nel dorato pomeriggio. La campagna ricca di orti, giardini, ville e villini con le palme da datteri e gli alberi da pepe; campagna che dava frutta e verdura stupenda; più stupenda quand’era accompagnata dai canti dei venditori…”. Quando Lino bambino si trasferisce con la sua famiglia in un altro appartamento si affaccia dalla finestra e vede una chiesa “questa chiesa in fondo anonima è più bella di tante più spocchiose….E’ come se uno si ritagliasse un pezzo di selciato; alzasse una quinta, la prima di tre, e ci mettesse al centro un portone non grande, piuttosto piccolino, che si portasse al braccio due finestre e desse un tono di colore grano maturo…e tirasse un balcone lungo quasi quanto la sua larghezza sul quale aprire tre alte finestre, tingendo tutto con un misto di bianco o celeste leggero che lasciasse trasparire un rosa di vecchia tinteggiatura. Una chiesa dignitosa nel suo rococò timidamente dichiarato dopo averci, prima, piazzato due lampioni ai suoi lati e la tirasse su con due gradini; ma ancora col colpo finale della perfezione e fantasia, prendere, come fosse una guantiera, il selciato ed elevarlo di altri tre gradini…”.

 

E’ l’artista che dipinge attraverso la sua memoria, immagini intrappolate nell’infanzia e riportate nel presente in un inestricabile nesso tra scrittura e pittura rivelandoci i palpiti di una città ormai scomparsa seppure un tempo vera e vissuta.

L’ iter artistico di Suppressa si esprime attraverso un lungo arco temporale di circa quarant’anni: dal momento grafico di matrice espressionista e anti novecentista, di cui rimangono disegni, inchiostri e tempere su carta degli anni ’40, al momento del suo particolare realismo fino a quello astratto.

Franco Sossi, il maggiore viaggiatore in arte del meridione per quegli anni, nel suo Arte contemporanea in Puglia del ’63, a proposito di Suppressa ne coglie le aperture da Scipione agli espressionisti tedeschi, a Constant Permeke, cioè la sua formazione dall’anelito europeo, il belga efficace narratore di paesaggi fiamminghi, paesani e pescatori del Mare del Nord che più di tutti l’artista leccese sembra far proprio nella sua fase post cubista.

Nelle opere successive, realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta, queste figurazioni cubisteggianti cedono il passo ad una struttura espressiva più autonoma, definita, in cui la materia pittorica se pure sembra elaborare nostalgie macchiaiole alla Fattori, cromie calde e selvagge dai fauve a Mafai e Guttuso, si configura come l’ oscillante testimonianza “tra presenza e memoria” di una precisa condizione esistenziale: la solitudine, l’emarginazione del Sud.

Prendono corpo una serie di dipinti, quasi sempre su tela o cartoncino telato, in cui emerge il suo nucleo tematico in forma poetica: la città e la sua campagna, scorci di piazze e abitanti, interni di famiglia e di atelier che narrano in modo inconfondibile la leccesità.

In questa sua ricerca Suppressa si colloca in una chiave antinovecentesca ma di assoluta autonomia rispetto all’esperienza neorealista. Il suo è un realismo metafisico, che si svolge tutto nella memoria più che nella realtà, un incanto mitico in cui immerge i suoi concittadini, contadini, lavoranti, operai, la sua famiglia ed egli stesso. Dà l’avvio a un susseguirsi di piazze aperte e fatate in cui gli spazi caldi e luminosi si alternano all’ombra di architetture dechirichiane dalle quali spuntano comparse schiacciate da un sole accecante. Il Duomo (1950), Piazza del Carmine (1960), Domenica pomeriggio alle Scalze e Chiesa di San Francesco col carcere (1957) fino agli interni borghesi con il mobilio attentamente descritto, le piccole cose, la luce che filtra dalle tende fino quasi a sentire l’odore di pulito e varichina: Il comò, piccolo capolavoro d’ambiente, l’Attesa, Salone da ballo, Noi due, realizzati tutti tra il 1953 e il ’57.

Altro tema sono le putee o mescite. Ombra, tavoli, odore di vino e bacheche dove sono sistemati piatti, utensili e le cose commestibili a comporre delle vere e proprie nature morte. Nelle diverse versioni spicca quella del Museo Provinciale Castromediano, del 1956-58, una sorta di dopolavoro del mondo contadino.

Il mondo del lavoro è raccontato attraverso il carro di contadini in partenza nella luce mitica dell’alba, Partenza all’alba, 1960 o Sartoria del 1955, con il gruppo di donne intente a cucire immerse in una luce caravaggesca, dove non vi è alcuna volontà di denuncia sociale ma semplicemente ciò che ha sempre caratterizzato il mondo operaio e contadino di questi luoghi, la quieta rassegnazione al destino, l’incapacità di opporsi ad esso.

A partire dai primi anni Sessanta l’artista si allontana da questa trasfigurazione metafisica e poetica della realtà per dare avvio alla fase astratta della sua pittura in cui istanze di matrice cubista sono filtrate da un rigore mentale e geometrico. A segnare il passo opere come Uomo d’arme, Composizione in viola, Composizione Liberty, tutte impegnate in una ricerca astratta tout court che attesta Suppressa come indispensabile nella situazione visuale del Sud in quegli anni.

Pur essendo egli strenuamente legato al suo mondo Suppressa segna nel corso della sua ricerca un percorso sentimentale ed astratto eppure efficace, mai retorico e provinciale, capace di cogliere ed esprimersi secondo una visualità contemporanea e universale.











































 

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