Il falso civismo nella corsa a candidarsi: l'improvvisazione al potere

Il falso civismo nella corsa a candidarsi: l'improvvisazione al potere
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 21 Maggio 2017, 19:48 - Ultimo aggiornamento: 23 Maggio, 20:02
Il profilo professionale di molti candidati a sindaco, il record degli aspiranti consiglieri comunali e la proliferazione delle liste civiche hanno tratto in inganno più di qualche commentatore. C’è chi ha parlato di una ritrovata voglia di politica, di riscossa della cosiddetta società civile che vuole reimpossessarsi della gestione della cosa pubblica, requisita per troppo tempo dalle sempre più ristrette oligarchie dei partiti. Magari fosse così. In realtà, al Nord come al Sud, a Taranto come a Lecce, così come in tutti i comuni del Salento dove si voterà l’11 giugno, siamo di fronte allo stadio terminale della crisi della politica così come l’abbiamo conosciuta fino alla fine del Novecento, assistiamo ai guasti dell’avvenuta e pervicacemente voluta disintermediazione della società con l’implosione definitiva dei corpi intermedi, stiamo vivendo da vicino gli effetti dell’eclissi di quelle che una volta venivano chiamate classi dirigenti e dell’ormai scomparsa selezione dei governanti.

Il coinvolgimento della cosiddetta società civile non c’entra assolutamente nulla, se intendiamo per società civile ciò che ci hanno insegnato Pareto e Weber, Michels e Gramsci. Non c’entra assolutamente nulla né nella scelta dei candidati a sindaco, né sulla scelta di molti cittadini di correre per un posto nei Consigli comunali. Nel primo caso, l’individuazione di nomi esterni alla politica, scelti dall’alto magari più per la popolarità che per le competenze, è stata quasi sempre una soluzione tampone dettata dall’incapacità dei partiti e delle coalizioni di trovare una sintesi e un punto di equilibrio al proprio interno. In altre parole, il passo indietro della politica di professione - che in assoluto non è una cattiva parola, tutt’altro - è solo apparente, nel senso che “dietro” gli esterni si muovono apparati consolidati e vecchi meccanismi di consenso. Nel secondo caso, non bisogna sottovalutare che, spesso, la scelta di scendere in campo derivi anche dall’aberrante, eppure diffusa convinzione che solo attraverso la politica sia ormai possibile risolvere i problemi personali, entrando in qualche modo nei circuiti decisionali o nei sistemi protettivi. Questo avviene soprattutto in molte aree del Sud, dove è ancora largamente dominante la cultura della protezione e della sudditanza rispetto alla cultura dei diritti e della cittadinanza. E dove spesso prevalgono metodi di governo fondati quasi esclusivamente sulle relazioni amicali e finanche parentali.

Intendiamoci, non mancano certo motivi nobili nella spinta a mettersi in gioco, nella scelta di abbandonare il bordo campo e di partecipare alla partita, mossi dalle migliori intenzioni di fare qualcosa per gli altri e per la propria città. Ma, anche in questo caso, è la motivazione di fondo che è fuorviante. Perché in questa scelta c’è la convinzione, sbagliata, che la propria discesa in campo e l’impegno individuale possano cambiare il corso delle cose. E’ una variante di base della cosiddetta “personalizzazione della politica” e anche il frutto avvelenato della cultura giustizialista, quella secondo cui - a sistema invariato - la soluzione del problema è la sostituzione dei mercanti nel tempio con gli uomini onesti e puri: due processi, fortemente intrecciati, che tanti guasti hanno prodotto negli ultimi decenni nelle democrazie occidentali e, in particolare, in Italia.

Purtroppo, anzi per fortuna, così non è. Le dure repliche della storia hanno dimostrato che si tratta di una soluzione illusoria e velleitaria. Il buon governo di società complesse, dalla Casa Bianca al più sperduto municipio della provincia jonica e salentina, non può dipendere soltanto dalle virtù taumaturgiche del singolo e dal semplice ricambio di uomini soli al comando, ma dalla capacità di mettere in campo alleanze e soggetti collettivi che si allargano progressivamente sulla base di una visione comune e che sono poi in grado, anche sulla spinta di forti tensioni ideali, di dispiegare un’egemonia culturale e progettuale. Queste alleanze, che formano la “societas”, non possono certo nascere e svilupparsi nell’arco di qualche mese, al momento della frenetica formazione delle liste elettorali. La storia insegna che i cambiamenti veri e profondi sono figli di processi, spesso di lungo periodo, talvolta anche contraddittori, ma non si rivelano mai tali se si esauriscono in atti singoli e separati. E qui torna, come un macigno, il tema della società contemporanea sempre più decomposta e sfilacciata, che non riesce più a trovare motivi, valori, idealità e, soprattutto, la fiducia per stare insieme. Una società che fa sempre più fatica a pronunciare il bellissimo pronome personale “noi” al posto del dilagante “io”. Basti pensare a ciò che avviene in molti segmenti della cosiddetta società civile (dalle associazioni di categoria agli ordini professionali, perfino nel volontariato oltre che in organizzazioni più complesse), che si rivelano sovente molto più litigiosi e inconcludenti della politica.

Ecco perché non siamo di fronte a un risveglio virtuoso del civismo più nobile, ma al contrario in presenza - soprattutto al Sud e nei nostri territori - di un ulteriore avvitamento di quel maligno circolo vizioso tra società decomposta e rappresentanza politica che dall’unità d’Italia tiene prigioniera la società meridionale (e ormai non solo meridionale, considerato che da un po’ di anni si parla di “meridionalizzazione dell’Italia”). La corsa sfrenata alle candidature rappresenta, di fatto, un ulteriore sintomo della malattia della politica, non l’inizio della sua guarigione.

Non dimentichiamo, poi, che finita la sbornia e i protagonismi della campagna elettorale ci sarà la prova del governo. E non dimentichiamo che il mestiere di governare non s’improvvisa, come non ci si improvvisa politici. Piaccia o no, la politica era e resta una professione, con la sua autonomia, le sue leggi, le sue dinamiche. E con le competenze che merita. Dovrebbe essere un dato acquisito nel Paese che ha dato i natali a Machiavelli, ma la tumultuosa vulgata dell’antipolitica ha messo in discussione anche questo.

C’è un dato che più di ogni altro, in questo ultimo scorcio di campagna elettorale, dimostra la deriva dell’improvvisazione al potere. E’ la confusione che molti candidati - per fortuna non tutti - continuano a commettere di frequente tra programma e progetto. Si tratta di due cose completamente diverse, nei significati e anche nelle gerarchie. I progetti, quelli sì davvero importanti, nascono guardando il mondo, scorgendo ciò che si muove anche lontano da noi, alzando lo sguardo verso l’orizzonte e studiando. Un esempio banale. Nei giorni scorsi Gentiloni è stato in Cina per la “via della seta”. Abbiamo appreso che i cinesi hanno progettato e intendono realizzare in tempi brevissimi collegamenti ferroviari veloci per il trasporto delle proprie merci fino alle porte dell’Europa orientale e centrale, rinunciando così in parte al trasporto via mare per le esportazioni. Una sorta di transiberiana commerciale, che ridurrebbe il traffico nel canale di Suez e, dunque, farebbe tornare marginale il Mediterraneo. Per noi, punta meridionale dell’Europa, per noi che abbiamo speso anni e anni nella convegnistica sulla piattaforma logistica del Mediterraneo, non cambia nulla? Per il futuro di Taranto non cambia nulla? C’è qualche candidato che ha lanciato una riflessione su questo punto? Era un semplice esempio. Se ne potrebbero fare altri su Lecce e sulle idee-forza di lungo periodo per accompagnare e governare il processo di cambiamento in corso, per uscire dalla morsa provincialismo-esterofilia, per compiere quel salto di qualità sempre più necessario da “paesone di provincia” a moderna “città europea”. Il risultato non cambierebbe, a meno che non ci si voglia accontentare dei programmi, magari ben scritti, talvolta scopiazzati, ma del tutto secondari.

Qualcuno è convinto che si tratti di vecchi modi di pensare, ormai superati dalla democrazia digitale, dalla democrazia del clic. Si sente spesso ripetere che dobbiamo uscire definitivamente dal Novecento e lasciarci alle spalle tutti i residui novecenteschi. Sarà. Il punto è che dovremmo, però, recuperare almeno l’Ottocento, il senso della società, il senso dello Stato e anche il senso della storia. Oltre che ridare un significato autentico a due parole, dopo l’abuso che ne abbiamo fatto negli ultimi anni: riforma e riformismo. Dovremo, forse, riscoprire l’importanza delle competenze e la centralità (e la verticalità) dei saperi. Anche nella politica. Perché sarà anche un modo vecchio di pensare, ma è sicuro che per governare una società - non per comandare, ma per governare una società - bisogna studiarla e capirla. E tenere a debita distanza l’improvvisazione dal potere. Per evitare altri guai, forse irreparabili.
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