Autonomia differenziata: le regole del gioco e il gioco delle regole

La Camera dei deputati
La Camera dei deputati
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 11 Febbraio 2024, 12:16 - Ultimo aggiornamento: 18:40

Una partita di calcio. Prendiamola ad esempio: due squadre, un pallone, l'arbitro e il Var. I tifosi tutt'intorno. Uno schema chiaro, lineare, preciso. Calcio d'inizio, 90 minuti a ritmo sostenuto. Spettacolo. Bello, magari. Poi però si scopre che a portare il pallone, a designare l'arbitro e a nominare gli addetti al Var è la squadra di casa. Scandalo, inchiesta federale, partita da rifare. Ovvio. Prendiamo l'autonomia differenziata, soprattutto ora che è alla Camera dopo il voto favorevole del Senato al ddl Calderoli: se passa, è legge. Poi si vedrà sulle eccezioni di incostituzionalità e sui referendum abrogativi. Intanto c'è. O, per meglio dire, ci sarebbe. La Consulta è lì a monitorare. Il calcio, però: non dimentichiamolo.

Legittimo che alcune regioni – le più dinamiche, le più ricche – vogliano correre e fare da sé. Legittimo che un governo abbia una sua idea di Italia (un po' meno che sia frutto di calcoli e strategie a fini elettorali e rientri in uno schema di scambio con il premierato). Legittimo che – a chi ci crede – si presenti la riforma come un progetto per ridurre i divari territoriali. L'Italia una e indivisibile (forse). Il problema è nella coerenza interna tra parole, azioni e risultati. Il nodo, e non è poco, è tutto qui. Manca la coerenza logica, perché gli obiettivi finora sono solo semplici auspici ed enunciazioni di principio; manca la consequenzialità operativa, perché non sono definitivamente stabiliti gli strumenti a disposizione (i Lep, ad esempio, i Livelli essenziali delle prestazioni); manca la definizione concreta del traguardo da tagliare, perché è tutto ancora in discussione.

L'autonomia differenziata punta a riallineare le varie zone d'Italia, e in definitiva Nord e Sud, garantendo a tutti parità di trattamento minimo in 23 materie, come definite dalla riforma del titolo V della Costituzione: le stesse cui le Regioni potranno far riferimento per acquisire spazi autonomi di programmazione e gestione.

Dalla sanità alla scuola, dall'energia all'ambiente: settori fondamentali, nulla di marginale. Il riferimento – secondo l'ipotesi di riequilibrio – è agli ultracitati Lep. Una cosa però deve essere chiara: pochi Lep, molta autonomia per le Regioni; molti Lep, poco spazio di manovra (e di potere gestionale). Il binario su cui muoversi è questo. 

Intanto il disegno di legge Calderoli va al voto della Camera – con ottime probabilità di essere approvato in via definitiva – senza che sia sancito il nucleo funzionale intorno al quale ruota l'intero pacchetto di norme legislative, da stabilire con procedimento parallelo e separato: l'individuazione dei Lep e la quantificazione dei fabbisogni standard. I due insiemi sono collegati: dapprima si fissano i Lep, poi si attribuisce ad ognuno di essi un peso in termini economici. 

Primo punto: di quanto denaro avranno necessità le Regioni per garantire il rispetto dei Lep? Il fabbisogno standard darà la risposta al quesito. Facile a dirsi, difficile a farsi. La riforma, dall'evidente trazione leghista, deve – dovrebbe – essere a costo zero per lo Stato, almeno per come si legge nel ddl e per come esplicitato dallo stesso ministro Giorgetti. In questa cornice dovrà essere definito il quadro, composito e complesso, delle somme in ballo e dei canali attraverso i quali reperire i fondi indispensabili. Tenendo ben presente – però – che le Regioni più ricche puntano a trattenere il residuo fiscale, vale a dire la differenza tra quanto versato allo Stato tra imposte e tasse e quanto ricevuto per l'erogazione dei servizi. Almeno un elemento, tuttavia, è senza dubbio positivo: questo meccanismo punta a definire le esigenze finanziarie degli enti territoriali superando la palude della cosiddetta spesa storica, penalizzante per quanti ricevono poco, spendono bene o sono costretti a fronteggiare situazioni tanto inedite quanto gravose, perché mutate nel corso del tempo.

Questione spinosa. Affrontarla e risolverla è compito della Commissione tecnica per i fabbisogni standard (Ctfs), l'altra parte dell'ingranaggio che ruota intorno ai Lep. La partita, come si vede, è tutta da giocare. Gli schieramenti contrapposti sono in campo. Ma il punto è: chi porta il pallone, chi nomina l'arbitro, chi designa il Var? La composizione dell'organismo – tecnico fin che si vuole, però con evidenti connotazioni politiche – solleva perplessità perché alcuni dei componenti hanno già fatto parte della commissione incaricata dal Veneto per le trattative con l'allora governo Conte sull'intesa bilaterale finalizzata all'Autonomia. E il Veneto, con Lombardia e l'Emilia Romagna, compone il ristretto novero di enti che hanno messo in moto il complesso sistema che ha catapultato il regionalismo differenziato in Parlamento. Il Sud ha alzato la voce per dire no, ancora una volta. Non senza ambiguità: classi dirigenti, rappresentanti politici e istituzionali hanno le loro colpe su arretratezze e inefficienze, su scelte opportunistiche con effetto boomerang. Però non è di questo che si discute, non qui, non ora. Il problema è nelle regole del gioco – e nell'imparzialità delle decisioni – in una partita che rischia di segnare le sorti del Paese per chissà quanti anni. Se nel bene o nel male, poi, lo dirà la storia. Ma la storia, giusto per restare in clima sanremese, la storia siamo noi. Nessuno si senta offeso. Nessuno si senta escluso. Noi che abbiamo tutto da vincere. O tutto da perdere.
 

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