Nicoletta Bianconi, il suo invincibile inverno fa sognare anche Manni

Nicoletta Bianconi, il suo invincibile inverno fa sognare anche Manni
di Claudia PRESICCE
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Venerdì 29 Marzo 2024, 05:25 - Ultimo aggiornamento: 2 Aprile, 19:29
“La condizione che io chiamo esilio è una riga nera che tu hai tracciato, una riga che divide il mondo in due metà, una specie di meridiano che passa da Bologna, in particolare passa fra la tua casa e la mia casa, e dire che abitiamo anche vicini, eppure sei riuscito a mettere te e me in due metà diverse del mondo. La condizione che io chiamo esilio è sentirmi straniera e muta senza quella lingua che io ho parlato solo con te e che io chiamo tenerezza. La condizione che io chiamo esilio è essere fuori dalla traiettoria del tuo sguardo…”. 
È un messaggio su Whapp per lui, scritto da lei. Però lei, prima di inviare, lo rilegge e poi lentamente clicca sulla freccia che all’indietro cancella tutto, lettera per lettera. È tutta in queste parole la condizione esistenziale della protagonista della storia raccontata, con una scrittura impeccabile e un pathos che non lascia tregua, da Nicoletta Bianconi nel suo romanzo “Un invincibile inverno” (Manni; 14 euro; 160 pagine). La protagonista si racconta, ma lo fa con il “tu”, in seconda persona, come se parlasse a se stessa guardandosi dall’esterno. La sua esistenza è aggrovigliata in “una storia senza storia”, perché è rimasta strettamente legata ad un amore andato via e in realtà ora si limita a sopravvivere. La sua esistenza tra la psicoanalisi e le vicine di casa ritratte nelle loro imbarazzanti solitudini contemporanee tipiche dei condomini di qualunque città oggi, è scandita da ricordi o forse sogni, lacerazioni dell’anima che non guariscono mai. “Non so definirlo, in questo universo in cui fluttuano queste due bolle indipendenti, una è la sua vita, l’altra è la mia vita e in mezzo un gelido e buio niente, senza atomi, questa cosa qui non so se possa essere l’antimateria, o un buco nero che risucchia tutto, ma solo di me”: quando racconta così in prima persona è perché parla con la psicologa che ascolta quasi in silenzio. Le chiede aiuto per combattere questo male interiore per il quale nessun antidolorifico può servire. È una lotta con un morbo interiore che non vuole guarire, mentre lei conta i giorni che la dividono da questo amore, non si sa quanto vero e quanto edulcorato. Il lato estremo di questa materia è il fulmine lancinante che attraversa tutti coloro che hanno vissuto un grave abbandono, la fine incomprensibile di una storia d’amore, una separazione subita e netta. Nei ritmi scanditi tra queste pagine rimbalzano incubi che conoscono bene, fin troppo, i cuori spezzati definitivamente da queste storie. Sarà per la potenza espressiva di queste parole, per l’eco che non conosce finitezza in queste pagine, che il libro, pubblicato dall’editore salentino Manni, è entrato nella rosa dei nominati per la corsa al Premio Strega 2024. È stato presentato infatti da Cesare Milanese con una lunga precisa motivazione. «Nicoletta Bianconi, nel suo romanzo “Un invincibile inverno”, a un certo punto cita due strofe di una poesia di Camus – spiega Milanese – nella prima delle due strofe si dice: “Ho compreso, infine, / che nel bel mezzo dell’inverno / vi era in me / un’invincibile estate. / E che ciò mi rende felice.” Nella seconda strofa, invece, si dice: “Ho compreso, infine, / che nel bel mezzo dell’inverno / vi era in me / un invincibile inverno”. Ecco trovato, da parte dell’autrice, il titolo e il contenuto del libro. Ciò che accade nel libro è ciò che accade alla protagonista come personaggio unico, la cui vicenda di vita complessiva può essere riassunta in pochissime parole. Quelle che bastano per dire di un’esistenza ridotta alla sua nuda proprietà. Di preciso, di lei, si sa soltanto del suo essere pervasa da un’assurda possessione d’amore rappresentata da un’immagine d’uomo, di cui non si sa bene se esista. Ma che lei, nel suo delirio, pensa che esista, sia perché lui, nella vita di lei, ci sarebbe già stato come uomo reale, sia perché lei continua ad attendere che lui ricompaia. Il che non accadrà. Certo, la sua psicoanalista, che è una lacaniana, potrebbe ben dirle che lei, la sua paziente, è un caso esemplare di “mancanza ad essere”. Ma non le dice nemmeno questo: in realtà non le dice niente. Sta di fatto, però, che è nella sala d’attesa del suo studio che questa sua paziente reperisce un libro di Maurice Blanchot: La struttura del disastro. Certo si tratta del “disastro” che agita lo “spazio letterario”, ma è naturale che questa paziente identifichi il disastro del discorso letterario con il disastro esistenziale. Un disastro dal quale non sembra esserci riscatto o superamento, tranne nei momenti in cui i tormenti dell’inquietudine si placano in virtù dei correlativi emotivi derivanti sia dall’ascolto di certa musica, sia dalla visione di certi film, sia dalla lettura dei libri da lei culturalmente sentiti come più suoi». Nicoletta Bianconi è nata nel 1973 e vive a Bologna, dov’è anche ambientata la storia. Lavora in una multinazionale, nel 2019 ha pubblicato il romanzo “Qualcosa di giallo. Vita di un rappresentante di moquette”. 
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