Sanità, Silvio Garattini: «Troppe diseguaglianze. L’autonomia un errore enorme»

Sanità, Silvio Garattini: «Troppe diseguaglianze. L’autonomia un errore enorme»
di pAOLA
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Domenica 7 Aprile 2024, 08:51 - Ultimo aggiornamento: 10:55

Oncologo, farmacologo e fondatore, nel 1963, dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS che presiede dal 2018, Silvio Garattini è fra gli scienziati italiani più conosciuti e stimati a livello internazionale e fra i firmatari della lettera aperta con la quale 14 personalità del mondo scientifico e della medicina hanno chiesto al Governo più investimenti per il Servizio sanitario nazionale (Ssn). 
 

Professore, perché questa richiesta arriva adesso?
«Perché il Governo non ha fatto nulla, non si è attivato per i molto evidenti problemi che la gente incontra ogni giorno. Pensi alle liste d'attesa. Anche nelle regioni dove il Servizio sanitario funziona meglio ci sono ormai attese di sei, otto mesi, anche di un anno per alcune prestazioni. A meno che non ci si rivolta al servizio intramoenia, cioè si paghi. Questo è un grande campanello d'allarme: segnala una diseguaglianza ormai inaccettabile nell'accesso alle cure. Una palese violazione della Costituzione italiana. E poi continuiamo a perdere medici e infermieri».
 

Perché avviene, a suo avviso? 
«Perché molti, moltissimi vanno all'estero o passano da sistema pubblico a quello privato che li paga meglio. Gli stipendi dei nostri sanitari sono fra i più bassi d'Europa e se non rimediamo, perderemo per sempre la possibilità che il Ssn svolga pienamente la sua funzione. Certo, non sono problemi di oggi. Anche i Governi precedenti hanno riservato poca attenzione alla sanità, ma ora la percentuale di spesa sanitaria rispetto al Pil è fra le più basse del continente».
 

Uno dei frutti avvelenati di questa situazione è l'intasamento dei Pronto soccorso. Condivide l'idea, contenuta nel Pnrr sanità, di realizzare delle Case di comunità per potenziare la medicina territoriale?
«I Pronto soccorso si affollano perché le persone non trovano assistenza sul territorio. Oggi in Lombardia un medico di base ha fra i 1500 e i 1800 pazienti ma da contratto fa 15 ore di ambulatorio a settimana. È impossibile che riesca a rispondere ai bisogni dei malati. Serve il coraggio di fare una riforma che vada contro gli interessi dei sindacati dei medici di medicina generale, ma prima deve venire sempre il bene dei cittadini. Nelle Case di comunità ci saranno 10-30 medici diversi e un più ampio accesso ai dati dei pazienti, con laboratori aperti 12 ore al giorno, sette giorni su sette. E questo potrebbe permetterci di migliorare il servizio, investendo più tempo e cura nella prevenzione, che abbiamo completamente perso di vista nonostante la maggior parte delle malattie sia evitabile. Lo è il 40% dei tumori, lo è il diabete di tipo 2 che colpisce 3,7 milioni di persone all'anno e si può evitare con esercizio e alimentazione adeguata. Serve una grande rivoluzione culturale perché l'eccesso di attenzione alle cure ha creato un grande mercato della medicina e funziona come tutti i mercati: prevenire è l'unico modo per opporsi e cambiare le cose».
 

È vero che lei non pranza mai?
«In letteratura ci sono numerosissimi studi che lodano il mangiare poco. Si deve mangiare di tutto, ma in quantità moderata. Non serve mangiare una volta sola, anche cinque volte al giorno va bene: ciò che conta sono le calorie introdotte e consumate nell’arco della giornata».
Torniamo ai fondi per il Ssn. Lei ha proposto a più riprese una revisione del Prontuario dei farmaci per cambiare le regole di acquisto, fare gare d’appalto e riuscire così a risparmiare miliardi di euro da destinare al potenziamento dei servizi. Come si riuscirebbe a centrare questo obiettivo e perché il suo consiglio non è stato accolto?
«Non viene accolto perché ci sono troppi interessi economici in gioco. Oggi abbiamo un eccesso di farmaci: a cosa serve avere 50 farmaci anti-diabetici? Le industrie premono perché questi farmaci siano venduti. Se ne scegliamo di efficaci e innovativi e ne prendiamo meno, contrattando sui prezzi, si otterrebbe gradualmente una riduzione di svariati miliardi su una spesa che oggi, per il Servizio sanitario nazionale, vale 23,5 miliardi di euro e nel 2023 è aumentata di almeno un altro 5%. Ridurla si può basta volerlo fare. Con il ministro Grillo avevamo fatto un primo passo, ma poi il Governo è cambiato».
 

Professore, nella vostra lettera aperta si fa cenno anche all'autonomia differenziata. Il regionalismo in sanità è già realtà da anni e con la pandemia ha rivelato tutti i suoi limiti. A suo avviso, questa organizzazione ha comportato anche dei vantaggi oppure no?
«Ciò che penso sia sbagliato è avere un’organizzazione che prevede funzionari, impiegati e via dicendo per tutte le regioni, a prescindere che abbiano 300mila o 10 milioni di abitanti. L’ideale sarebbe avere una rete di 12 aree, per esempio, da 5-6 milioni ciascuna che consenta di utilizzare il denaro in maniera adeguata. L’Italia è un Paese diversificato e complesso ed è giusto che il sistema sanitario si adatti alle differenze territoriali, ma fino a che punto? Deve esistere sempre un coordinamento centrale che garantisca a tutti uguale accesso alle cure. Sarebbe un errore enorme riconoscere completa autonomia economica a singole Regioni: i soldi della tassazione verrebbero sottratti ai territori più fragili». 
 

Insieme alla ricercatrice dell'Istituto Mario Negri Rita Banzi e a una ricca squadra di esperti, lei ha scritto un libro intitolato “La medicina che penalizza le donne”, mettendo in guardia dai limiti di una “medicina al maschile”. Ci fa un esempio concreto di cosa significhi? E di come vada affrontata questa sfida?
«Nella fase preliminare, i farmaci sono studiati negli animali maschi, nella fase 1 clinica i volontari sono maschi, idem nella fase 2 e poi nella fase 3 ci sono anche delle femmine, ma nel 75% sono troppo poche per poter avere un risultato distinto sugli effetti diversi di quel farmaco nei maschi e nelle femmine. Questa è un’ingiustizia. La proposta è quindi che, per le malattie più comuni, si metta a punto un protocollo che segua i due generi già negli studi preliminari, perché per una stessa malattia frequenza, sintomi ed esiti sono diversi fra maschi e femmine come lo sono assorbimento, metabolismo ed eliminazione dei farmaci».
 

Non trova sia un obiettivo troppo ambizioso per un Paese che investe pochissimo in ricerca?
«Ma il problema non è nostro, è mondiale. In uno studio che ho seguito negli Stati uniti e durato oltre dieci anni, si è riscontrato che gli effetti tossici di alcuni farmaci si sono manifestati in 1,3 milioni di uomini e in 2 milioni di donne. In più otto farmaci su 10 ritirati dal commercio per tossicità, avevano i loro effetti tossici sulle donne. Che mi auguro si facciano sentire». 
 

Professore, ma è vero che lei da ragazzo voleva fare il sacerdote?
«Sono cresciuto in un oratorio e fra tanti circolava questa idea.

C’era il fascismo e mio padre la sera, di nascosto, mi faceva ascoltare Radio Londra per dimostrarmi che non era quel regime ciò che volevamo. Quello che ci accade, dipende anche dal flusso degli accadimenti nella vita. A me, in fondo, la tonaca non è mai mancata».

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