Bassanini: «Autonomia sbagliata, così i divari aumentano. Riformiamo il Titolo V»

"I lep vanno definiti e finanziati tutti assieme. Così come si procede adesso, si cristallizzano le differenze. Il premierato? Molto male"

L'ex ministro Franco Bassanini
L'ex ministro Franco Bassanini
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 18 Febbraio 2024, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 19:03

Partita complicata, si rischia di fare disastri. Probabilmente occorre rimettere ordine nel modo di procedere. E forse servirebbe anche qualcosa in più: una riforma della riforma. Autonomia differenziata, livelli essenziali delle prestazioni, Titolo V della Costituzione, distribuzione delle risorse, poteri e rapporti di forza tra le Regioni (e tra queste e lo Stato). È tutto sul tavolo. In ballo c’è il futuro del paese, a cominciare dagli elementi basilari: l'uguaglianza dei punti di partenza, il superamento dei divari territoriali, l'efficienza dell’amministrazione pubblica, la tutela degli interessi strategici della nazione. Intervista a Franco Bassanini, professore di Diritto costituzionale, più volte ministro con i governi Prodi, D'Alema e Amato, per molti anni presidente della Cassa Depositi e Prestiti, autore di una riforma strutturale su semplificazione e decentramento amministrativo passata alla storia col suo nome.

Professore, dove ci porterà l'autonomia differenziata?

«In realtà non lo sappiamo: al momento è un salto nel vuoto. Però attenzione: nella nostra Costituzione quella norma, dopo la riforma del 2001, c'è. L'iniziativa del ministro Calderoli non è illegittima».

Si teme possa aumentare i divari Nord-Sud, invece di ridurli.

«È così se non si pone mano, prima, all’attuazione di un'altra norma costituzionale: la determinazione, da parte del legislatore, dei livelli essenziali delle prestazioni attinenti ai diritti civili e sociali. L'autonomia si può dare solo dopo aver definito e finanziato tutti – sottolineo tutti - i livelli essenziali delle prestazioni, in modo da evitare di aumentare le disuguaglianze tra i cittadini».

Sulla definizione dei Lep ci si arriva. Sul finanziamento, dubbi e perplessità abbondano.

«No, non si arriva neanche alla definizione dei Lep».

Perché? È al lavoro un qualificato comitato di esperti, in carica ancora per un altro anno.

«La definizione dei Lep non è separabile dal loro finanziamento. I livelli essenziali delle prestazioni riguardano una serie molto ampia di prestazioni pubbliche, di competenza statale, o regionale o comunale. Pensiamo all'istruzione: dagli asili nido all'Università, col diritto di tutti a una buona scuola e dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di proseguire fino al dottorato di ricerca. Diritto all’istruzione, ma anche alla salute, e a una pensione dignitosa. E ad avere il passaporto in pochi giorni e non dopo mesi. Anche questi sono Lep».

Un campo pressoché infinito.

«Certo. Una vasta gamma di diritti civili e sociali richiede una vasta gamma di prestazioni pubbliche. In alcuni casi i Lep sono stati definiti, in molti altri no. Ma anche quelli già definiti, lo sono in via provvisoria: non si possono stabilire con certezza senza aver prima chiaro il quadro economico di riferimento. Sarebbe ottimale che tutti i bambini potessero andare all'asilo pubblico, e che nelle scuole ci fosse il tempo pieno per tutti. Se però per finanziare questi Lep mancassero le risorse necessarie per garantire pensioni sociali dignitose o un buon sistema sanitario per tutti, occorrerebbe ripensarli».

Come?

«Se le risorse a disposizione non bastano, occorre limare questo o quel Lep, prima di arrivare alla loro determinazione finale. O aumentare la “torta” tagliando altre spese pubbliche. Finché non si è fatto questo lavoro non si può attivare l’autonomia differenziata, che darebbe ad alcune Regioni risorse che potrebbe poi non essere possibile dare anche alle altre. La Costituzione è chiara, nell'articolo 117 e prima ancora nell'articolo 3: sui livelli essenziali dei diritti non ci possono essere disuguaglianze tra i cittadini. Solo dopo si può realizzare l'autonomia differenziata».

Perché, allora, l'inversione procedimentale nell'iter dei lavori?

«La prima ragione si può intuire: definire tutti i Lep è un lavoro complesso che richiede un impegno intenso e gravoso per diversi anni. E che impone scelte anche dolorose. Meglio fingere di dar tutto a tutti».

E la seconda?

«La strumentalizzazione politica della questione. Per alcuni partiti, garantire ora l'autonomia differenziata è un modo per acquisire consensi nelle prossime competizioni elettorali, a partire da quelle europee. Il messaggio rivolto ai cittadini delle regioni più ricche è suggestivo: col regionalismo differenziato, avrete servizi migliori e pagherete meno tasse».

Forse, ancor più radicata, è l'idea che il Nord paghi anche per il Sud.

«Vista dal lato “nobile”, la tesi è: siamo più efficienti, svolgiamo meglio certi servizi di quanto non faccia lo Stato. Però è vero: è ancora radicata l’idea che i contribuenti del Nord paghino anche per quelli del Mezzogiorno».

E non è così, giusto?

«Se si valuta la ripartizione reale del carico fiscale, parametrata con i redditi effettivi, si constata che il Nord Italia non subisce una pressione fiscale maggiore rispetto al Centro e al Sud. Ma un’altra è la narrazione diffusa, che determina molte scelte di voto».

Restiamo al lato “nobile”, quello dell'efficienza. Per il presidente del Comitato Lep, il professor Cassese, corre chi ha gambe migliori. Insomma, l'autonomia differenziata sarebbe una spinta a fare meglio.

«In linea di principio, l’affermazione è giusta. Ma presuppone quello che abbiamo detto finora: che tutte le Regioni abbiano pari opportunità (pari risorse) per garantire ai cittadini i livelli essenziali per il godimento dei diritti civili e sociali. Se non si fa questo, se nella ripartizione delle risorse si continua a procedere sulla base della spesa storica, si finisce per fotografare e cristallizzare le disuguaglianze esistenti, e forse aumentarle. Ma Cassese non considera anche altre cose».

Quali?

«Prima di attuare l'autonomia differenziata, occorre ripensare la stessa ripartizione delle competenze sancita dalla riforma del Titolo V».

È possibile rimettere in discussione tutto, con l'iter sul regionalismo pressoché definito?

«Pensi all’energia: alcune Regioni potrebbero chiedere e ottenere competenza esclusiva in materia. E invece oggi è già troppa l’autonomia concorrente. Quando fu scritta la Costituzione, i poteri pubblici intervenivano solo sulla distribuzione locale. Non si ponevano problemi che possono essere affrontati e risolti solo a livello nazionale o addirittura europeo: la sicurezza e adeguatezza negli approvvigionamenti, l’indipendenza energetica, il cambiamento climatico e la transizione verso fonti rinnovabili e pulite. Oggi l'energia non è più un problema locale: è una grande e vitale questione nazionale e internazionale».

Vale anche in senso opposto?

«Certo: la vexata quaestio delle concessioni balneari, ad esempio. Fatti salvi porti, riserve naturali e aree militari, le concessioni potrebbero essere regolate più efficacemente dalle Regioni che non dallo Stato».

Riforma della riforma del Titolo V, dunque.

«Bisogna prendere atto che il mondo è cambiato a velocità spaventosa, e il climate change ha accelerato molti di questi processi. Se mutano gli scenari, si devono – dovrebbero – adeguare le cornici normative».

Lei era contrario alla modifica del Titolo V.

«Quand'ero ministro, tra il 1996 e il 2000, ho fatto una riforma che prende il mio nome: insieme a tante altre cose, semplificazione, autocertificazione, digitalizzazione, etc., quella riforma ha trasferito molte funzioni dalle articolazioni periferiche dello Stato alle Regioni, alle Province e ai Comuni: ma si trattava di funzioni amministrative. Il Titolo V ha trasferito invece funzioni legislative. E lo ha fatto, secondo me, in maniera azzardata; e comunque senza tener conto che il mondo stava cambiando».

Perché?

«L’originario disegno di legge Amato-D'Alema era molto più equilibrato di quello che poi il Parlamento ha varato. Prevalse nella maggioranza di centrosinistra l’intento di togliere spazio alla Lega sul terreno dell'autonomia e del federalismo: alla fine il piede è “scappato” sull'acceleratore... Visco e io suggerimmo invano in Consiglio dei Ministri di fermare la riforma: perché non era stata ben ponderata e perché sarebbe passata solo a colpi di maggioranza, mentre le riforme costituzionali non dovrebbero essere divisive e suggerite solo dagli interessi di una parte politica. Così si è invece creato un precedente pericoloso».

La riforma non ha giovato al centrosinistra, sconfitto alle successive elezioni politiche.

«Come diceva un mio caro vecchio amico, Aldo Tortorella, ciascuno alla fine resta vittima delle proprie macchinazioni».

Anche sull’autonomia differenziata lei non ha nascosto dissenso e perplessità, uscendo dal Comitato per i Lep.

«Sì, insieme a Giuliano Amato e Franco Gallo, già presidenti della Corte Costituzionale, e a Sandro Pajno, ex presidente del Consiglio di Stato. E l’abbiamo lasciato dopo avere constatato che nel Comitato non si voleva risolvere e neppure discutere la questione di fondo: quella di definire, prima, tutti i Lep e il loro finanziamento. Noi quattro abbiamo avuto diversi confronti con Calderoli. Alla fine, il ministro – persona intelligente e franca – ha ammesso: dal punto di vista costituzionale, forse avete ragione voi; ma se io seguo le vostre indicazioni, varerò l'autonomia differenziata tra dieci anni, mentre ho preso l’impegno di attuarla prima delle elezioni europee».

Detto così, gioco smascherato.

«Sì, è come quando sul premierato il presidente del Senato Ignazio La Russa ha detto: ebbene sì, vogliamo limitare i poteri del presidente della Repubblica, ne ha ormai troppi».

Realisticamente, cosa accadrà con l’autonomia differenziata?

«Registro nella stessa maggioranza diffuse perplessità, soprattutto tra i parlamentari eletti nel Mezzogiorno, ma non solo. Però alla fine varrà il patto di ferro che tiene insieme la maggioranza di governo: ciascuno dei tre partiti ha ottenuto la garanzia che passerà la propria riforma identitaria: per la Lega, l'autonomia differenziata; per Forza Italia, la riforma della giustizia; per Fratelli d'Italia, l’elezione diretta del premier».

Cosa pensa del premierato?

«Tutto il male possibile. Sbaglia chi crede che sia un compromesso rispetto al presidenzialismo: concentra tutti i poteri in una sola persona ben più che nei sistemi presidenziali. Pensate a un Biden o a un Trump che però avesse il diritto di avere nel Congresso una maggioranza assicurata, di sciogliere le Camere, di metter la fiducia per far approvare i propri maxiemendamenti. Tutti poteri che il presidente americano non ha. Però alla fine, ognuno dei tre partiti otterrà la sua riforma. E il regionalismo differenziato passerà».

A quel punto ci sarà il referendum.

«Sì, ma l'esito è imprevedibile. Un recente sondaggio Ipsos registra una lieve maggioranza di favorevoli. Ma il dibattito fin qui è stato essenzialmente tecnico: le opinioni potrebbero cambiare quando comincerà il confronto sulla vera posta in gioco: l’uguaglianza degli italiani, gli interessi strategici della nazione. Quindici giorni fa ho tenuto una lectio magistralis all'Università di Padova, nel cuore del Veneto leghista. Quando ho fatto l’esempio dell'energia, cui facevo prima riferimento, l'uditorio, affollato, colto e in maggioranza favorevole all’autonomia differenziata, mi è sembrato scosso. La partita è tutta ancora da giocare».